Fornasier, la mia vita tra i Belumat e la fede

Cantautore, tenore, compositore, volontario nell’organizzazione internazionale della sindrome Prader-Willi

«Sono nato con una grossa testa, forse perché già piena di progetti». Giorgio Fornasier, bellunese, classe 1947, nell’immaginario collettivo veneto è uno dei Belumat, il duo che nato ufficialmente nel settembre 1972 con un concerto al Palasport di Belluno. Lui e il partner, Gianluigi Secco, si esibirono, oltre che nel Triveneto, ovunque nel mondo ci fossero emigrati italiani. Canzoni d’autore, canzoni in dialetto, recital folk. Tutto frutto di una grande ricerca sulla storia e le tradizioni. Trentacinque anni di carriera assieme non sono certo pochi, ma quello che a Fornasier preme di più, è quello che c’è stato prima e quello che è venuto dopo. Prima c’era il sogno di un bambino nato in una famiglia appassionata di lirica, dove i profumi della cucina si mischiavano agli acuti delle romanze cantate dalla mamma. «Da grande farò il tenore!» Ma per un po’ quel sogno dovette rimanere nel cassetto. «Ma la musica no. A cinque anni manovravo il mantice dell’organo nella nostra parrocchiale. A dieci anni, il parroco mi permise di fare pratica sull’armonium. Imparai presto, ed esordii con la Partita in La minore di Domenico Zipoli». Oltre quarant’anni dopo quello stesso autore tornerà nella vita di Fornasier in maniera mai immaginata. «Il Signore mi aveva inviato un segnale. Tutto quello che mi è successo è frutto di un disegno divino». Intanto, il piccolo musicista cresce, impara a suonare il mandolino, canta alle feste con vari gruppi, si esibisce con Le Ombre, interpreti dei brani dei Beatles. Si diploma metalmeccanico.

Entra nel coro polifonico del Centro Turistico Giovanile. «Conosco Maurizia, la donna con cui sono sposato da cinquantadue anni, e con la quale abbiamo due figli, Redi e Daniele, e adesso anche due nipoti musicisti. Ho viaggiato tanto, per la musica e per il mio lavoro di export manager. Da Hong Kong agli Stati Uniti, passando per la Patagonia, ho riempito quattordici passaporti, imparato molte lingue, scritto testi perfino in cinese, ma la priorità è sempre stata la famiglia». C’è anche un momento di grande dolore, fisico e psicologico. «Nel 1969, lavoravo in fabbrica. Con la macchina per la pasta, mi sono tranciato di netto le prime due falangi di quattro dita della mano destra. Oltre allo choc, al male terribile, mi terrorizzava pensare che non avrei più potuto suonare». Invece, con una tenacia fuori del comune, Fornasier dopo sei mesi impara a suonare il pianoforte, con cui compone, ma anche la chitarra acustica e il basso. Lo incontriamo nella sua casa di Limana, nel Bellunese, insieme alla moglie e al figlio Daniele. «È nato nel ‘76, con una sindrome genetica rara, all’epoca quasi sconosciuta: la Prader-Willi. Sono diventato presidente dell’associazione mondiale, per aiutare le famiglie e garantire una diagnosi precoce anche nei Paesi del Sud del mondo. L’aspettativa di vita era quattordici anni; oggi mio figlio ne ha quarantasette». Questo l’impegno sociale. «Ma il Padreterno non aveva ancora finito con me. A quarant’anni, un’insegnante mi conferma che, nonostante l’età, posso farcela come tenore.
Ritrovo il sogno di bambino. Voglio cantare la Misa Criolla di Ariel Ramirez». Lo spartito è irreperibile in Europa, ma il figlio di un amico paraguayano, fra Carlos Galeano, la ritrova in Paraguay, assieme a degli antichi manoscritti di musica sacra del “mio” Domenico Zipoli, che veniva eseguita dagli indios nelle Riduzioni Gesuitiche di tutto il Sudamerica. «Un vero tesoro che vedeva la luce per la prima volta, grazie alla trascrizione del maestro Luis Szaràn. Con l’Ensemble intitolato a Zipoli, abbiamo cantato questa musica ovunque, facendo conoscere la vicenda straordinaria legata alla prima evangelizzazione del Sudamerica da parte dei gesuiti. Ho cantato anche in Vaticano per papa Francesco. E lui ha voluto la Guadalupana, dedicata alla Vergine di Guadalupe. Il Papa, canticchiava con me».
Oggi Fornasier canta solo in chiesa. «È ora di ringraziare il Signore, e la mia cara mamma, che diceva: “Non togliete la musica a Giorgio, è la sua vita”». La signora Giuseppina vedeva lontano.

© 2024 Romina Gobbo

pubblicato su Avvenire – giovedì 11 aprile 2024 – pagina 22

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