Sudafrica, contraddizioni per l’”arcobaleno” al voto

Elezioni presidenziali e politiche il 29 maggio: povertà e corruzione le piaghe

Il nero sta col nero, il coloured sta col coloured, il bianco sta col bianco. Perché non basta la legge per sanare le ferite di quasi cinquant’anni di discriminazione e segregazione, servono una lunga riconciliazione e un cambiamento culturale, che richiedono generazioni. E, a tutt’oggi, in Sudafrica, ricchezza e potere sono ancora per lo più in mano ai bianchi, che rappresentano circa il 9% di una popolazione di circa sessanta milioni, il cui 80% è nero. Ci sono, poi, un altro 9% di coloured (quanti, di sangue misto, hanno una colorazione della pelle più chiara rispetto alle popolazioni indigene, ndr) e un
2%di indiani/asiatici. «Circa tre milioni sono gli stranieri; oltre 330mila sono i richiedenti asilo e rifugiati, stretti tra le maglie della burocrazia e il fastidio della popolazione locale, perché, a loro dire, “rubano il lavoro”», racconta padre Filippo Ferraro, scalabriniano, parroco a Cape Town. Cifre più precise saranno disponibili a gennaio del prossimo anno, quando ci saranno i risultati del censimento del 2023.
Il Sudafrica è chiamato il Paese arcobaleno, proprio per i numerosi colori che caratterizzano la pelle degli abitanti. Ma la romanticheria si ferma lì, perché si tratta di un Paese ancora socio-economicamente stratificato su base razziale. Forse bisogna partire da questo quadro, se si vuole cominciare a capire il Paese più a sud dell’Africa. E – sottolineo – «cominciare a capire», perché parliamo di una realtà molto complessa, con il fantasma dell’apartheid che continua ad aleggiare, con undici lingue ufficiali, una popolazione giovanissima (la media è vent’anni), al 60% disoccupata, con il 10% che detiene il 71%
della ricchezza, una carenza di leadership, un super protezionismo, nei confronti soprattutto dei migranti (una realtà che, invece, non può essere ignorata), un’altissima criminalità e una corruzione ormai endemica. Le contraddizioni sono evidenti a occhio nudo. Nelle grandi città i grattacieli lasciano presto il passo alle township, dove vive il 70% della popolazione. Ricchi e poveri non sono molto lontani fisicamente, ma lo sono per condizione: i primi vivono barricati nelle loro abitazioni blindate, i secondi nelle capanne con i tetti di lamiera, quando va bene; con cartoni, plastica e tronchi, quando va male, e senza un sistema idrico adeguato. Ad unirli – fa quasi sorridere – i continui black out, perché il Paese si è letteralmente mangiato la compagnia elettrica, la Eskom, a colpi di corruzione e di manutenzione non effettuata. Da quindici anni, ormai, anche per otto ore al giorno, se non si ha un generatore, si sta al buio. Un paradosso per un Paese che cerca sempre più di accreditarsi sulla scena mondiale – da qui anche l’adesione ai Brics -, che vuole attirare investimenti stranieri e diventare una meta sempre più interessante per il turismo. Questo disservizio programmato – chiamato load shedding -, che incide pesantemente sull’economia e sulla sicurezza interna, è stato guarda caso risolto in questo periodo pre-elettorale.
Così si presenta il Sudafrica a poco più di un mese dalle elezioni presidenziali e politiche. Si terranno il 29 maggio, a trent’anni dalle prime consultazioni libere dopo l’abolizione dell’apartheid (1948-1991), che si svolsero nel 1994. Tutti gli occhi sono puntati sull’African National Congress (Anc), il partito che fu di Nelson Mandela, e che governa da allora. Secondo alcuni analisti, per la prima volta potrebbe non raggiungere la maggioranza assoluta; dovrebbe quindi cercare un’alleanza per formare un governo di coalizione. Non più, dunque, un solo partito al potere. C’è chi dice che le riforme sono possibili solo con
un governo stabile. Il Sudafrica è la prova che non funziona così. Trent’anni di stabilità e di partito monocolore, ma le riforme non sono state fatte. E questo potrebbe avere un grosso peso sul risultato elettorale. Anche nei confronti del presidente, Cyril Ramaphosa, in carica dal 2018, c’è molta delusione. Non ha risolto nessuno dei problemi interni, e la politica estera, con l’avvicinamento alla Russia e alla Cina, e la richiesta alla Corte Penale Internazionale di accertare se il comportamento di Israele nei confronti dei gazawi possa essere considerato genocidio, hanno creato parecchio disappunto. Non
dimentichiamo che in Sudafrica esiste una forte comunità ebraica (circa 60mila persone), che ha lottato attivamente a fianco di Mandela per l’abbattimento dell’apartheid.
L’Alleanza Democratica (Da), principale partito all’opposizione, sta negoziando con altri per presentarsi alle elezioni con grandi numeri, con l’obiettivo di estromettere l’Anc dal governo. Ma questa ipotesi al momento sembra improbabile. Non va poi dimenticata la vicenda dell’ex presidente Jacob Zuma, escluso dalle liste dei candidati a causa di precedenti penali. Il suo partito, l’uMkhonto weSizwe (Mk), ha presentato ricorso al tribunale, ma ha anche paventato violenze. Tanto che la Commissione elettorale indipendente (Iec) ha fatto firmare ai partiti in corsa (presto saranno noti gli ammessi, ndr) un codice di condotta, che sancisce che non saranno tollerati comportamenti come «l’incitamento alla violenza, l’intimidazione, la diffusione di disinformazione o l’abuso di posizioni di potere».

© 2024 Romina Gobbo

pubblicato su Il Giornale di Brescia – giovedì 18 aprile 2024 – pagina 7

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