Afflitte dal sistema disumano dei talebani. Intanto si rischia un’altra guerra civile
«Vorrei sapere perché queste 136 donne sono qui». Dovetti chiederlo più volte prima che l’interprete si decidesse a rivolgere la
domanda all’allora direttore del carcere femminile di Herat, città dell’Afghanistan occidentale. Il carcere era stato costruito con
il denaro della cooperazione italiana. Una bella struttura, niente da dire. Le detenute frequentavano corsi di lingua inglese, di
cucito, e di bigiotteria. Così – diceva il direttore – «quando sarebbero uscite, avrebbero avuto un mestiere». Peccato che,
nella maggior parte dei casi, le condanne fossero a vent’anni. Forse una volta uscite, non avrebbero avuto neanche più il fiato. Ma
quello che mi premeva sapere era perché erano lì. «Perché sono scappate di casa». «E perché sono scappate di casa?» Scappavano
da un marito violento, abusante, tossico, alcolizzato. E, per questo, finivano dietro le sbarre, a scontare «delitti morali», ripudiate
dalle famiglie di origine per aver abbandonato il tetto coniugale.
Già nel 2011 la condizione delle donne afghane era difficile. Nonostante la presenza internazionale, l’allora governo Karzai, per assicurarsi il consenso della frangia più fondamentalista, aveva già cominciato a varare leggi sfavorevoli alle donne, come il divieto di uscire senza il permesso dei mariti. A Kabul la situazione era migliore. Le donne lavoravano. Le ragazze studiavano. Ma il 15 agosto 2021, dopo vent’anni, i talebani ripristinavano il loro dominio sul Paese. La Costituzione del 2004, che sanciva la parità dei sessi e riservava alle donne il 27% dei seggi parlamentari, è stata sospesa, sostituita dalla shari’a, la legge islamica, nella sua forma più intransigente. Restrizioni e divieti si sono succeduti. Represse la libertà di espressione e associazione. Annullati i diritti all’equo processo, alla partecipazione alla vita pubblica, alla protesta. Chiuse le scuole di musica e arti. A farne le spese sono ancora una volta soprattutto donne e ragazze. Niente più istruzione liceale e universitaria. Divieto di praticare attività sportive, di guidare, di lavorare, di andare dal parrucchiere. Segregazione sessuale negli spazi pubblici. Obbligo di indossare l’hijab fuori casa, e di essere accompagnate da un mahram (un uomo di famiglia) per viaggi oltre i 70 chilometri. A vigilare è il Ministero per la Propagazione della Virtù e la Prevenzione del Vizio. Un nome, un programma. Per chi trasgredisce, c’è l’arresto. Il 25 novembre 2022, un rapporto dell’Onu affermava che il trattamento dei talebani nei confronti di donne e bambine va considerato un «crimine contro l’umanità».
Anche se ufficialmente l’Emirato Islamico non è stato riconosciuto a livello internazionale, è un’autorità de facto, e non mancano i contatti bilaterali: con Pakistan, Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti. Occhi puntati anche da parte di India, Russia, Iran e Cina, preoccupati che l’Afghanistan diventi un hub di movimenti jihadisti. E mossi anche dall’interesse per ciò che è presente nel sottosuolo: rame, ferro, cobalto, oro, e terre rare, preziose per le nostre società digitali. In realtà, le ricchezze dell’Afghanistan interessano a tutti ma, almeno per il momento, i Paesi occidentali devono fare i conti con la propria opinione pubblica. Anche se in futuro, chissà. Non sarebbe la prima volta che un «rogue State» (ai margini della comunità internazionale, ndr) poi viene legittimato. «È molto verosimile che ciò possa avvenire, attraverso un processo che passerà dalla normalizzazione dei rapporti a un riconoscimento di fatto. Credo che la mia generazione – e non sono più un ragazzino – vedrà già questo passaggio. Fine agosto 2021, aeroporto di Kabul. I soldati americani garantiscono la sicurezza del perimetro interno; i talebani garantiscono la sicurezza esterna. Dopo un paio di giorni, gli americani passano le consegne. È l’inizio di un nuovo rapporto tra ex nemici, che da quel giorno non hanno mai cessato di dialogare, anche nell’ottica, da parte statunitense, di mantenere un’influenza sulla leadership talebana. Atteggiamento che io ritengo “ingenuo”, perché – la storia ce lo insegna – dei talebani non ci si può fidare», spiega Claudio Bertolotti, ricercatore Ispi e direttore di Start Insight, già capo sezione contro intelligence e sicurezza della Nato in Afghanistan.
A tutto questo, si aggiungono la corruzione, una crisi umanitaria senza precedenti, e la grave insicurezza dovuta anche alla presenza dell’Is-Kp (Islamic State Khorasan Province). Attacchi suicidi, combattimenti, esplosioni sono all’ordine del giorno. La costola afghana dell’Is cerca di destabilizzare il regime dei talebani, compatti nella loro ideologia oscurantista, meno dal punto di vista della visione politica. Un’altra guerra civile è dietro l’angolo, o forse non si è mai davvero conclusa.
© 2024 Foto e testo Romina Gobbo
pubblicato su Il Giornale di Brescia – giovedì 16 maggio 2024 – pagina 7
Didascalia: Donna afghana nel carcere di Herat, 2011


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