Il Paese ricco di giacimenti è instabile e lacerato da scontri interni
«Il tentativo di colpo di Stato sventato dalle nostre forze armate e di sicurezza aveva l’obiettivo di destabilizzare le Istituzioni»: a dirlo è il generale di brigata Sylvain Ekenge, portavoce dell’esercito della Repubblica Democratica del Congo. Comparso alla tv di Stato con una breve nota, ha anche tenuto a rassicurare che «la situazione è sotto controllo». Che il gruppo di una trentina di persone, con divise militari, capeggiate da Christian Malanga Musumari, sia stato fermato, non c’è dubbio, ma che il Paese sia sotto controllo, fa quantomeno sorridere, non fosse altro perché esteso quanto l’Europa occidentale. Ma, soprattutto, per la situazione del nord Kivu, dove il territorio e, soprattutto, quello che c’è nel sottosuolo, è conteso da 120 gruppi armati, nazionali e internazionali, con interessi politici ed economici vari, alcuni anche affiliati alla filiera jihadista internazionale. Tra i più noti, l’M23, sostenuto dai confinanti Ruanda e Uganda. Quest’area è sempre più off limits. L’avevamo capito nel 2021, quando è stato ammazzato il nostro ambasciatore Luca Attanasio. Eppure, passato il clamore per un omicidio di tale portata, il Congo è tornato nel dimenticatoio. Finché, prima dell’alba di domenica 19 maggio, un commando ha assaltato nella capitale Kinshasa, prima la residenza del vice premier Vital
Kamerhe, candidato alla presidenza dell’Assemblea Nazionale, poi il vicino «Palazzo della Nazione», che ospita gli uffici del presidente Félix
Tshisekedi. Intervenute, le forze di sicurezza hanno ammazzato sei attentatori, e arrestato gli altri. Tra gli uccisi, Christian Malanga, 41 anni, congolese, dal 1998 negli Stati Uniti come rifugiato, fondatore e leader del Partito Congolese Unito (Ucp), volto a organizzare la diaspora contro «l’attuale regime governativo dittatoriale congolese». Nel 2017, aveva creato a Bruxelles il governo in esilio del «Nuovo Zaire». Nel palazzo
presidenziale il commando si era affrettato a sostituire la bandiera della Rdc con quella verde dell’epoca di Mobutu Sese Seko. Strana nostalgia,
visto che Mobutu, per la corruzione, il nepotismo e le violazioni di diritti umani, è considerato l’archetipo del dittatore africano. Assieme a Malanga, anche il figlio ventunenne Manuel. La stranezza è che il commando, oltre che da persone di origine africana, era formato anche da cittadini stranieri, tra cui l’imprenditore originario del Maryland, Benjamin Zalman-Polun, e il californiano Cole Patrick, entrambi in affari con Malanga
per lo sfruttamento di risorse minerarie nella Repubblica del Congo e in Mozambico. Quale effettivamente fosse il loro obiettivo non è dato sapere, ma sui social congolesi le ipotesi si sprecano. Che sia avvenuto di domenica mattina con gli uffici chiusi e che non siano state occupate infrastrutture nevralgiche, già dà da pensare. C’è anche chi azzarda l’ipotesi che, vista la poca simpatia della popolazione per il presidente, che è stato sì eletto al secondo mandato lo scorso dicembre, ma con una delle tornate elettorali «più caotiche al mondo», come ha scritto l’Economist e, secondo l’opposizione, anche con brogli, l’azione volesse dimostrare che il Paese è ben governato e l’esercito è forte. In Congo si trovano il 33% dei giacimenti mondiali di cobalto, il 10% delle riserve mondiali di rame, un terzo delle riserve mondiali di diamanti, tre quarti delle riserve mondiali di coltan, fondamentale per i device, e poi uranio, zinco, manganese. «Le abbondanti risorse naturali sono una maledizione. La gente soffre la fame. I campi profughi sono allo stremo. Attorno a Goma c’è un milione di sfollati, scappati dalle zone di conflitto. Lo scandalo vero è che il Paese
è ricchissimo, ma alla popolazione non rimane nulla. Tutto prende il largo», dice il docente universitario Francesco Barone che, con la sua associazione «Help senza confini», nell’ex colonia francese c’è già stato sessanta volte, per portare aiuti umanitari e costruire scuole. E ad agosto ripartirà. «Speriamo. Il Congo è diventato proprio un manicomio. Oggi si gira solo con la scorta». Chi detta legge sono le multinazionali estere. «Siamo di fronte a un Paese venduto; i presidenti sono tutti telecomandati dall’esterno. Ci sono la Cina, il Belgio, gli Stati Uniti, e molti altri.
Tutti fanno affari nel caos vigente. Nessuna speranza viene dall’Onu. La missione Monusco è inutile, 17.000 tra militari e civili, con stipendi altissimi, che “osservano”. La popolazione sa bene che da quegli uomini non può aspettarsi nulla, tanto che non li rimpiangerà quando, a fine 2024, torneranno a casa», dice un missionario che nel Paese dell’Africa centrale ha risieduto per trent’anni, durante i quali ha assistito a tutti i più grandi avvenimenti, dalla caduta di Mobuto all’arrivo di Kabila, fino al primo mandato Tshisekedi, e che più volte si è ritrovato con il mitra puntato, «ma finora la Provvidenza…». Giusto per non chiedere troppo alla Provvidenza, omettiamo le generalità.
© 2024 Romina Gobbo
pubblicato su il Giornale di Brescia – domenica 2 giugno 2024 – pag. 8


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