Dopo un ricorso contro lo Stato e le compagnie petrolifere, rischiano la vita
Intimidazioni, stigmatizzazioni e minacce di morte. È il prezzo che paga chi in Ecuador e, più in generale, in America Latina, si batte per la difesa della foresta amazzonica. E non importa se si tratta di ragazzine. Leonela Moncayo, Rosa Valladolid, Skarlett Naranjo, Kerly Herrera, Denisse Núñez, Dannya Bravo, Mishell Mora e Jeyner Tejena sono le Niñas Amazonas, hanno tra i 15 e i 19 anni. Originarie del lago Agrio, nella provincia di Sucumbíos, al confine con la Colombia, sono nate e vivono in un territorio ricchissimo di biodiversità, ma devastato dall’estrazione del petrolio, e con una delle più alte concentrazioni al mondo di tumori per numero di abitanti. Leonela è figlia dell’attivista dell’Udapt (sodalizio portavoce dei diritti delle vittime Chevron-Texaco), Donald Moncayo. Fin da piccola, papà l’ha portata con sé nei cosiddetti «toxic tours», alla scoperta delle aree della foresta contaminate.
In uno di quei tour, con la guida di un altro noto attivista dell’Udapt, l’avvocato Pablo Fajardo, c’ero anch’io. Mi addentro in un verde rigoglioso, il sentiero è stretto, gli alberi ai lati sono altissimi, i rami sono talmente abbracciati gli uni agli altri che quasi non si vede il cielo. Mi aspetto solo che mi compaia Tarzan appeso a una liana, invece… sprofondo in una palude di liquame nero. Le chiamano piscinas, sono quasi un migliaio, sono le pozze d’acqua resa putrescente dagli scarti dell’attività estrattiva petrolifera. Parliamo di circa 60 miliardi di litri di acqua tossica sversata dalla compagnia petrolifera Texaco, poi acquistata da Chevron Corporation che, dal 1972 al 1992, ha trivellato i 365 pozzi petroliferi del Paese. Da quelle pozzanghere, scavate nel suolo dai due ai quattro metri di profondità, senza rivestimenti isolanti, escono rivoli che inquinano il terreno e le sottostanti falde acquifere, quelle che alimentano il Rio Aguarico, i cui ultimi cinquanta chilometri costituiscono il confine naturale con il Perù. Le comunità bevono l’acqua di quel fiume, vi si lavano, e le donne la usano per cucinare. Sempre in quell’acqua gli uomini pescano e i bambini nuotano. Fajardo affonda il badile nella terra ferita e subito zampilla liquido nero, mentre una zaffata di odore di benzina colpisce le narici.
«Quand’ero piccolo – racconta -, sguazzavo in questi liquami, noi bambini per gioco ci spalmavamo i fanghi sulle braccia, non
potevamo certo sapere che ci stavano avvelenando». Se l’acqua era tossica, non restava che costruire grandi bacini per raccogliere e poi utilizzare quella piovana. Peccato che anche dal cielo piovesse petrolio. La multinazionale statunitense, infatti, aveva costruito 384 mecheros (inceneritori), che bruciano 24 ore su 24 i gas in eccesso della produzione petrolifera, a temperature che superano anche i cento gradi, e le cui emissioni tossiche arrivano fino a 250 chilometri. Camini costantemente accesi, lingue di fuoco che «illuminano» le notti di 750mila indigeni appartenenti a 12 gruppi etnici differenti (che progressivamente scelgono di emigrare), mentre gli insetti muoiono arrostiti. La combustione del gas emette milioni di tonnellate di CO2 nell’atmosfera, uno dei maggiori fattori della crisi climatica. Nel 2020, le Niñas Amazonas hanno presentato un’istanza costituzionale contro lo stato dell’Ecuador, proprietario della compagnia PetroEcuador, denunciando l’inquinamento causato dai mecheros. Dopo una prima sconfitta, la sentenza d’appello, del 2021, decretava la progressiva chiusura dei mecheros: entro 18 mesi sarebbero dovuti essere smantellati quelli vicini ai siti abitati e, progressivamente, tutti gli altri entro il 2030. Ma la sentenza resta disattesa. In tribunale Leonela, davanti alla cui casa lo scorso febbraio è stato fatto esplodere un ordigno, è stata chiara: «Non smetterò di gridare sino a quando l’ultimo mechero non sarà stato eliminato dall’Amazzonia». A sostegno suo e delle altre niñas, la popolazione è scesa in piazza, e la parlamentare dell’opposizione Sofía Sancheza Urgiles ha chiesto il rispetto della sentenza. Mentre Amnesty International ha chiesto alle autorità ecuadoriane di indagare per individuare chi ha piazzato l’ordigno esplosivo, e di proteggere gli attivisti.
© 2024 Romina Gobbo
pubblicato su il Giornale di Brescia – domenica 23 giugno 2024 – pag. 7


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