Se in Africa un pozzo è questione di vita

Oggi è la Giornata mondiale dell’acqua, che l’Onu volle nel 1992

Le vedi camminare con sulla testa pesanti gerle. Sono le donne africane che vanno ad approvvigionarsi al pozzo. Dieci chilometri a piedi non sono un’eccezione. La Giornata mondiale dell’acqua, istituita nel 1992 dalle Nazioni Unite, e che si celebra il 22 marzo, ricorda che il rubinetto non è per tutti. In Africa, una persona su tre non ha accesso all’acqua potabile. Il 70% degli abitanti del continente vive in condizioni igieniche insufficienti. L’80% delle malattie deriva dall’uso di acqua contaminata da agenti patogeni e inquinanti chimici. L’acqua sporca porta il colera, il tifo, la malaria. Non poter irrigare significa non poter coltivare in un Paese dove il 14% del prodotto interno lordo deriva dall’agricoltura, e quindi è fame. Non si tratta di numeri, ma della lotta di intere comunità per la sopravvivenza. Per questo, quando si inaugura un nuovo pozzo, è festa grande. Nel sottosuolo l’acqua c’è, si tratta di avere l’attrezzatura per portarla in superficie. In certe aree basta scavare a 50-60 metri, in altre, come nel Sahel, si deve scendere a 100, allora si rende necessaria una tecnologia più sofisticata, di cui difficilmente gli Stati dispongono. Fiumi come il Nilo, il Congo, lo Zambesi sono risorse idriche importanti, ma sempre più messe a rischio da crisi climatica, crescita demografica e pratiche agricole
intensive. A causa di queste pratiche il lago Ciad, la più grande fonte d’acqua dolce dell’Africa, dagli anni ’60 a oggi ha perso il 90% della sua superficie. Pesanti siccità si alternano a lunghi periodi di piogge intense, com’è successo nel 2024, quando la stagione umida è andata ben oltre
i consueti mesi estivi. Le inondazioni che ne sono seguite hanno interessato 27 Paesi, impattando su 11 milioni di persone, tra vittime e sfollati. «Sui territori sopra i 1.000 metri, dove la piovosità è adeguata perché spazzati dai monsoni, ci sono acquiferi. Dove la piovosità scende sotto i 600 millimetri, l’acqua nelle falde scarseggia. E le piogge sempre più violente hanno vittoria facile su infrastrutture scadenti per mancanza di risorse economiche e competenze tecniche», dice Attilio Ascani, coordinatore progetti CVM – Comunità Volontari per il Mondo, una lunga esperienza nel
Corno d’Africa. Il Sud Sudan nella stagione delle piogge si spacca in due. Andare da una parte all’altra diventa impossibile. Le strade sterrate si trasformano in paludi fangose. Le ruote affondano. I fiumi si ingrossano e diventano pericolosi. Ma, se proprio non si può fare a meno di guadare, ecco uno stormo di ragazzini che circondano l’auto e, tenendosi per mano, con i loro corpi frenano l’onda. In Mozambico, l’acqua non fa in tempo a riassorbirsi che arriva Chido, o Freddy, o Idai. I nomi sono pure simpatici ma non c’è niente di simpatico nei cicloni tropicali. Scaricano la loro violenza soprattutto negli slum dove le case sono di lamiera e le fognature restano un miraggio. Centinaia di voci, la stessa domanda: «Nyumba bado iko?», c’è ancora la mia casa?

© 2025 Romina Gobbo 

pubblicato sul Giornale di Brescia – sabato 22 marzo 2025 – pag. 9

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