Suor Aziza, una missionaria che sa dare voce agli ultimi

«Ovunque mi chiedano di andare, per me è missione. La missione non è territoriale, non è il Paese, è la gente, e la gente mi affascina. Per me non esiste né primo, né ultimo mondo. La missione è stare con chi ha bisogno, testimoniare l’amore di Dio, essere umani con l’umanità, stare nel bisogno di oggi». Dopo aver vissuto con i lebbrosi in Sudan, con i beduini in Palestina, in Etiopia, in Giordania, nel Regno Unito, la missione della comboniana suor Azezet Habtezghi Kidane (67 anni, eritrea di nascita, ma oggi cittadina britannica), è a Brescia. È in forze all’Ufficio migranti della Diocesi, dove la sua conoscenza delle lingue e delle culture altre è preziosa. «Stiamo lavorando proprio per far conoscere ai bresciani la cultura di chi è arrivato qui», spiega.

Martedì 30 settembre, alle 19.15, parteciperà a Librixia, la Fiera del libro di Brescia (Area meeting «Agrobresciano Arena» – piazza Vittoria), per un incontro pubblico in occasione dell’uscita del suo libro «Oltre i confini. In missione dall’Africa alla Terrasanta» (Libreria Editrice Vaticana), scritto con la giornalista Alessandra Buzzetti, corrispondente di TV2000 a Gerusalemme, e con la prefazione del cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei Latini. Sarà in dialogo con la giornalista Valentina Gheda nell’evento organizzato da Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura e Libreria Editrice Vaticana. Per lei, che ha amici sia tra i palestinesi, che tra gli israeliani, quello che sta succedendo a Gaza è un dolore grandissimo. «Ho lavorato tanti anni con le comunità beduine sparse nel deserto tra Gerusalemme e Gerico, villaggi con il tempo di lamiera, sempre a rischio di demolizione da parte delle truppe israeliane. E oggi Israele è totalmente fuori controllo, ma il popolo israeliano soffre. Ho amici che dicono: siamo contro questo governo, ma solo per il fatto di vivere qui, ci sentiamo complici. La verità è che Israele ha costruito gli insediamenti, ha raso al suolo i villaggi, senza che nessuno della comunità internazionale intervenisse per fermarla».

Ma il nome di suor Aziza è principalmente legato all’aver scoperto una tratta di esseri umani nel Sinai. Per questo, nel giugno 2012, a Washington
ricevette, dall’allora segretario di Stato, Hillary Clinton, il prestigioso riconoscimento «Heroes», istituito da governo statunitense. Nel 2008 aveva scoperchiato un pentolone. All’epoca viveva in Terra Santa dove, in qualità di infermiera che lei chiama la «mia seconda vocazione» – e di interprete, aiutava l’organizzazione umanitaria Medici per i diritti umani.

Fu in quel periodo che, chiusa la rotta libica, a seguito dell’accordo tra Berlusconi e Gheddafi, i migranti africani cominciarono a percorrere la via del Sinai. Fuggiti dall’Eritrea, dal Sud Sudan, dall’Etiopia, in cerca di una vita migliore, nel deserto conobbero un inferno ancora peggiore. In pochi anni nei campi profughi approntati da Israele arrivarono oltre 60mila persone. «Avevano bruciature sulla schiena, tagli, cicatrici, le donne erano state sistematicamente stuprate, molte incinte dei loro aguzzini – racconta suor Aziza -. Raccolsi le voci di 1.600 migranti. Con fatica, con pazienza e con amore, perché erano persone distrutte psicologicamente, che non riuscivano a parlare di quello che era loro accaduto. Soprattutto le donne, inchiodate nell’orrore di quello che avevano subito. L’intuizione della mia amica psicologa, l’ebrea Diddy Mymin Kahn, fu fondamentale. Bisognava cominciare dai bambini. Realizzammo un asilo nido. E le madri, vedendo i loro bambini ritornare spensierati, cominciarono ad alzarsi dal letto. Inoltre, per fornire loro supporto sociale e anche un piccolo reddito, avviammo a Tel Aviv la cooperativa femminile Kuchinate (in tigrino: uncinetto). Lavoravano insieme musulmane, cristiane, ortodosse, ebree. E, nel frattempo, con le mie consorelle di “Casa Betania”, denunciavamo la catena di traffici umani che aveva l’epicentro nel Sinai, ma coinvolgeva altri Paesi; c’erano posti di tortura nel Sudan, in Libia». Suor Aziza aiuta le autorità a ricostruire la rete di trafficanti, molti dei quali erano di nazionalità eritrea. Per il governo eritreo, suor Aziza diventa «persona non gradita», e da allora non è più potuta rientrare nel suo Paese. «Mi addolora – conclude -, ma il mondo doveva sapere e intervenire». E il mondo non poté più far finta di nulla.

© 2025 Romina Gobbo 

pubblicato sul Giornale di Brescia – lunedì 29 settembre 2025 – pag. 6

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