Una puja per la vita

Un viaggio in India non può lasciare indifferenti. Esso rappresenta prima di tutto un’esperienza sensoriale. Appena scesi dall’aereo è l’olfatto a essere colpito da quell’odore intenso di spezie, che poi ti accompagnerà ovunque, fino a portartelo a casa nel bagaglio. Poi fuori dall’aeroporto, tocca all’udito: che strombazzare di clackson in un Paese dove il codice della strada rimane un optional! Mentre l’autista si districa nel traffico, il turista guarda dal finestrino. Balza subito all’occhio un’umanità varia che trascorre l’esistenza sull’asfalto. Dal gusto amaro della povertà a quello piccante del dhal (zuppa di lenticchie, ndr). Il cibo indiano non è adatto ai palati sensibili. 

Ma più di tutto, l’India arriva al cuore. Perché un Paese emergente, motore dell’economia moderna, conserva e reitera tradizioni millenarie. Anche l’indiano più alla moda, in una mano tiene l’i-phone e, nell’altra, un’offerta per il dio. Una devozione che noi europei abbiamo quasi dimenticato. 

Namaste… Saluto la divinità che è in te. Comincia così un viaggio in India. E da allora è un’immersione totale nella spiritualità. Parole come ashram, ghat, yoga, ayurveda, chakra, karma, guru… diventano familiari e quotidiane. Poi si impara a togliersi le scarpe, altrimenti nei templi non si entra. Non è facile per noi europei comprendere l’induismo. Noi che tra un missionario e una suora di clausura preferiamo senza dubbio il primo. Noi, dediti alle attività sociali, ma poco avvezzi alla preghiera personale. Noi, cresciuti a pane, catechismo e messe domenicali. L’induismo non ha un testo sacro per eccellenza, non ha un unico profeta, non ha dogmi, non richiede manifestazioni specifiche di culto, non obbliga i fedeli a frequentare il tempio, non pretende di catechizzare. È caratterizzato da una varietà di idee e pratiche, che appaiono come una molteplicità di religioni, in quanto ha assimilato le diverse credenze con cui è venuto in contatto. Ne risulta così una complessa mistura di filosofie vediche, rituali brahmanici, misticismo yoga, credenze pagane, culti della fertilità, occultismo tantrico e ordini monastici. Ma l’induismo è prima di tutto la ricerca del trascendente che ciascuno ha dentro di sé. Namaste.

Rishikesh

Una ricerca che ha portato anche molti vicentini a stabilirsi nel Paese asiatico. Giordana, sette anni fa ha aperto a Delhi un’agenzia turistica. Arrivata per la tesi di laurea, ha scelto di rimanere. Moreno, medico, ha incontrato l’India per caso, qualche viaggio di conoscenza, poi, quattro anni fa, il trasferimento definitivo. A Varanasi dirige il Kiran Village, centro di riabilitazione per bambini disabili, fondato nel 1990 da una suora svizzera, Sangeeta Judith Keller. A circa dieci chilometri da Varanasi, c’è Sarnath: nella cittadina dove il Budda tenne il suo primo sermone, Valentino ha aperto una scuola. Scelte personali importanti, complesse, fatte con consapevolezza e gradualità. Poi ci sono Diego, Umberto e Alessandro, che non si sono trasferiti, ma per i quali l’India è un rifugio sicuro, un luogo dove rigenerarsi, dove il contatto continuo con la miseria fa ridimensionare i propri problemi. E non potrebbe essere diversamente. La prima volta in India può essere uno shock. Non è facile abituarsi alla gente che dorme ai margini della strada, senza neppure un telo sulla testa, ai bambini che ti assillano per venderti qualsiasi paccottiglia, alle madri che chiedono qualche rupia perché i loro figli hanno fame. Gli europei vengono, vedono, vanno. Alcuni tornano, altri restano, proprio per assaporare quel misticismo di cui tutta l’India è intrisa, e che l’Occidente ha perduto. Brahma (il creatore dell’universo), Vishnu (il conservatore), Shiva (il distruttore-rinnovatore): ogni via, ogni casa, ogni negozio ha il suo altarino dedicato a un dio. Ma è nelle città bagnate dal Gange (la grande madre Ganga, che scorre per 2.700 chilometri, dal ghiacciaio himalayano di Gangotri al golfo del Bengala), che la ricerca del divino diventa totalizzante. I pellegrini si immergono, compiono abluzioni, lavano gli abiti (sui gradoni si possono vedere file di sari colorati asciugare al sole), recitano le puje (preghiere), fanno offerte, ripetono l’om (sillaba sacra scandita in continuazione quale mantra propiziatorio), ringraziano la dea del fiume. Chi si macchia di impurità (a causa del contatto fisico con un membro di casta inferiore, oppure con una donna mestruata…) è temporaneamente fuori casta e solo l’acqua può far tornare in uno stato di purezza. I rituali più intimi di vita e di morte si svolgono sotto gli occhi di tutti.

Rishikesh, tradizionale centro di sosta per i pellegrini indù pullula di ashram, scuole di meditazione e yoga, che attirano anche molti occidentali. Il luogo preferito dagli asceti per recitare le puje (preghiere) è la riva del fiume, all’alba e nella luce tremolante che precede il tramonto. In riva al Gange, un santone legge brani dal Mahahharata, uno dei più importanti testi sacri dell’induismo, che conta circa duecentoventimila versi di sedici sillabe, ovvero otto volte l’Iliade e l’Odissea messe insieme
Fuochi votivi ed incensi ardono ovunque. Impregnano l’aria di fumi pizzicanti, che nel caldo afoso si mischiano agli odori speziati delle cucine e a quelli della naturale fermentazione tropicale
Rishikesh

“Tutta l’India è piena di santoni che farfugliano vangeli in strane lingue; scossi e consunti dal fuoco del proprio fervore; sognatori, ciarlatani e visionari: così è dal principio e continerà fino alla fine”. R. Kipling

Rishikesh, sulla strada che conduce ai grandi centri di pellegrinaggio tra le montagne dell’Himalaya, attira da sempre asceti ed eremiti. Divenne popolare nel 1967 quando i Beatles soggiornarono nel Maharishi Mahesh Yogi’s ashram. All’insegna di “Don’t fight darkness. Bring the light, and darkness will disappear”, ovvero “Non combattere l’oscurità, porta la luce e l’oscurità sparirà”, uno dei mantra più celebri dell’epoca, molte star della canzone e del cinema seguirono l’esempio dei ragazzi di Liverpool. Ma non solo. Un’intera generazione di giovani cominciò a recarsi in India per scoprire le filosofie orientali, le religioni non cattoliche, le tecniche della meditazione. Da allora Rishikesh è un importante centro per l’insegnamento di yoga, meditazione, filosofia e medicina ayurvedica.

aridwar è una delle sette città sante dell’India in cui, ogni dodici anni, si svolge il Kumbh Mela, la manifestazione induista più importante del Paese. Quest’anno, da febbraio ad aprile, ha visto la partecipazione di cinquanta milioni tra santoni, eremiti, pellegrini e devoti

A 24 chilometri da Rishikesh e a 200 circa da Delhi, sorge Haridwar, la “porta di Hari”, uno degli appellativi del dio Vishnu. È una delle sette città sacre, luogo di benedizione e purificazione (shanti-pith, dimora di pace). Quest’anno è stata sede del Kumbh Mela, la più importante manifestazione religiosa induista, che vi si svolge ogni dodici anni. Umanità varia a decine di milioni: pellegrini, yogi, saddhu (asceti nudi, dai corpi smunti, coperti di cenere, con crocchie di capelli incolti) e sannyasin (coloro che, arrivati all’ultimo stadio della vita, si allontanano dal mondo per meditare in solitudine), e poi mendicanti, maghi, fachiri, incantatori di serpenti, barcaioli, venditori di ogni tipo di mercanzia e anche… truffatori e ciarlatani: poche rupie e la rinascita dell’anima è assicurata. E chissà mai che il paradiso non sia più vicino. I templi (mandir) antichi sono stati per la maggior parte distrutti dalle invasioni musulmane, ma la possibilità di assistere a espressioni di religiosità immutate nel corso dei millenni, è un ottimo motivo per inserire Haridwar nel proprio itinerario. I ghat (le gradinate che si affacciano sul fiume sacro) sono perennemente gremiti di pellegrini oranti, che attingono dall’acqua la forza per vivere, anche bevendola (e, a vedersi, non è particolarmente invitante). Catene protettive offrono appiglio a quanti fanno il bagno, impedendo loro di essere trascinati via dalla corrente. Al tramonto si svolge la Ganga Aarti, la cerimonia della luce. I fedeli si assiepano lungo la riva e, recitando sacre strofe, spingono nell’acqua le diya (lumini, spesso costituiti semplicemente da una foglia ripiegata contenente petali di fiori e una candela accesa). Uno spettacolo magico.

Varanasi
Il Manikarnika ghat di Varanasi. Ospita il più importante crematorio della città. Asceti ed eremiti ambiscono a morire qui dove arde perennemente il fuoco sacro. E proprio su quel fuoco che avvolge alte pire vengono deposti i cadaveri. L’odore acre del fumo, il pianto dei familiari e il viavai di feretri non possono lasciare indifferenti

Varanasi, una delle città più antiche del mondo, è anche la più santa delle città sante dell’India, in quanto dimora del dio Shiva. Trae il suo nome da due affluenti del Gange: il Veruna a nord e il minuscolo Asi a sud. Il suo primo nome è Kashi, città della luce divina; gli inglesi la chiamavano invece Benares. Contornati da templi e ashram, i ghat costeggiano la riva occidentale del Gange per circa cinque chilometri. Vi si accede da viuzze anguste, oscure, odoranti di spezie, a volte poco più che pertugi tra case fatiscenti addossate l’una all’altra.

Niente toccata e fuga; a Varanasi bisogna concedersi un po’ di tempo. Fermi lì ad osservare la miriade di persone di ogni estrazione sociale che arriva in pellegrinaggio (yatra), intonando canti religiosi (bhajan). Vengono speranzosi di ricevere il darshan (la visione della divinità) e bagnarsi nelle sacre acque. Alzatevi alle 4 e scendete al Dasaswamedh ghat per essere già in barca al primo chiarore dell’alba, a salutare il giorno che nasce. La luce dell’aurora è trasparente; un’esperienza unica.

Morire a Varanasi è un traguardo ambito, perché garantisce la moksha, la liberazione dal ciclo delle reincarnazioni. Il Manikarnika ghat ospita il più importante crematorio della città.
I cadaveri, avvolti in sudari, vi vengono trasportati su barelle in bambù, poi immersi nelle acque, quindi posti ad ardere sulla pira. Legna a sufficienza a seconda del peso del corpo e il sandalo pregiato solo per chi può permetterselo. Poi, le ceneri vengono gettate nel Gange. Il rituale non è per i deboli.

Varanasi era già fiorente 2.500 anni fa, quando Buddha pronunciò nella vicina Sarnath il suo primo sermone, perciò è sacra anche per i buddisti. Un altro aspetto dell’India che colpisce è la molteplicità di religioni. I monumenti indiani sono il risultato della commistione di arte induista, buddista e musulmana. Ma per le strade si incontrano anche sikh, giainisti, zoroastristi e cristiani. I turbanti colorati si impongono subito anche all’occhio meno attento, elevandosi sulla folla per lo più avvolta in camici candidi. Per il turista l’India, con oltre un miliardo di abitanti, è uno dei luoghi più caotici e irrefrenabili del mondo. Per il viaggiatore è uno dei più pittoreschi e indiscreti. Per il fotografo è uno dei più appassionanti. Per il giornalista è uno dei più stimolanti. Amare questo Paese richiede di accettarne contraddizioni e difficoltà.

© 2011 Romina Gobbo – Foto Fabio Zoratti
Pubblicato su Jesus n. 11 del 11/2010

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