
Il giornalista Luciano Scalettari
Quella di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin è una pessima pagina di storia italiana. Con la giornalista del Tg3 e il suo operatore, uccisi in Somalia mentre cercavano di seguire la guerra civile lì scatenatasi e la pista di un traffico di rifiuti tossici illegali, muore anche un certo modo di fare inchiesta, non solo il suo, ma anche quello dei giornalisti che in tutti questi anni hanno cercato di fare luce. Oggi, i soldi sono sempre meno, i tanti precari non possono certo permettersi l’assicurazione (costosissima) per andare inviati in aree a rischio, e le grandi testate hanno chinato il capo.
Giovedì 20 marzo 2014 si sono ricordati i vent’anni di quella che il padre di Ilaria (morto quattro anni fa) definì subito esecuzione. In occasione dell’anniversario, la presidente della Camera, Laura Boldrini, su sollecitazione dell’associazione Articolo 21 e a seguito di una petizione su charge.org, che ha raccolto 68mila firme, ha chiesto formalmente al Presidente del Consiglio, al Procuratore Nazionale Antimafia di togliere il segreto di Stato ai tanti atti ancora “coperti”. E l’ok del governo è arrivato.
«La domanda è: che cosa desecretano? Si parlava di 150 faldoni e a noi ne risultano almento 1.500. Lo faranno davvero? Se questo avvenisse, verremmo a sapere tutto quello su cui hanno indagato le varie Commissioni, chi ha fatto cosa, come è stato fatto. C’è una montagna di documenti. Insomma, è talmente rilevante, che io rimango diffidente», dice Luciano Scalettari che, insieme a Barbara Carazzolo e Alberto Chiara, furono il pool di giornalisti a cui Famiglia Cristiana fece seguire il caso Alpi. «A Famiglia Cristiana non avevamo una tradizione di inchiesta giornalistica. Ma, poiché io mi occupavo di Africa, cominciarono ad arrivarmi dalle Ong con cui collaboravo segnalazioni di malattie fino ad allora non presenti in quelle zone: non ebola, malaria, dengue, bensì tumori, malformazioni fetali e genitali, strane eruzioni cutanee, normalmente frutto di esposizione prolungata a sostanze fortemente tossiche, o radioattive. Inoltre, vennero in Italia alcuni somali per denunciare presunte violenze compiute da militari italiani durante la missione di pace Ibis, svoltasi negli anni tra il 1992 e il 1994. Entrambi questi elementi conducevano alla questione rifiuti. Oggi tutti ne parlano, ma fino al ‘98 il focus era su traffico d’armi e malacooperazione. Il nostro contributo, perciò, è stato importante». (I tre colleghi, insieme, nel 2000, vinsero il premio Saint-Vincent per il giornalismo proprio con un’inchiesta sui traffici d’armi e di rifiuti tossici in Somalia, ndr).
Quindici anni dedicati al caso Alpi-Hrovatin, che idea ti sei fatto?
«Che Ilaria e Miran hanno intercettato un pezzetto di una vicenda talmente colossale, che lo Stato continuerà a fare muro. Se tiriamo il filo e troviamo l’esecutore materiale, il mandante, le ragioni per cui si è agito così, questo ci porta a livelli istituzionali talmente elevati, dubito che lo Stato lo permetterà. Questo vale per la trattativa Stato-mafia, come per Ustica o il caso Moro. Lo Stato non vuole fare chiarezza, perché non vuole fare i conti con quel passato. Quando abbiamo iniziato, non ci spiegavamo come mai fosse stato messo in campo un dispiegamento di forze così importanti per non far emergere la verità su un caso come altri di giornalisti uccisi mentre svolgevano il loro lavoro. A differenza di altri casi, dove si può parlare più di sciatteria, qui ci accorgevamo che l’intervento istituzionale era sempre più depistante. Ogni volta che si arrivava a una fonte che poteva dire qualcosa, immediatamente ne saltava fuori un’altra che portava ulteriore confusione. Gli interventi diretti di depistaggio sono stati una costante in tutti questi venti anni. All’epoca, non capivo. Poi, con un altro collega, Luigi Grimaldi, abbiamo cominciato a guardare la cosa da un altro punto di vista. Abbiamo collocato il caso Alpi nell’Italia degli inizi degli anni ‘90. E ci siamo accorti che quel filo portava dritto dritto all’Italia, si intrecciava con l’escalation delle varie Leghe, e a uomini che preparavano la nascita di Forza Italia, che poco dopo vinse le elezioni. Bene, allora, ci sta che sul capo Alpi non si possa arrivare alla verità. Chi la vuole la verità? Non gli americani, non la sinistra, non i francesi, tantomeno la mafia che collaborava con i traffici».
Nel luglio 2003 viene istituita la Commissione parlamentare d’inchiesta sotto la presidenza di Carlo Taormina.
«Sostengo da sempre che nell’ambito della Commissione furono messe in atto azioni di depistaggio. Dall’eventuale desecretazione emergerà se il Presidente Taormina ne fu parte attiva o se, diciamo così, non se ne accorse. Io pure ho fatto parte della Commissione d’inchiesta per un anno e mezzo, ma eravamo informati solo su una parte delle cose che avvenivano all’interno. Non è fuorviante solo la relazione finale, ma anche molti dei “puntelli” su cui è stata costruita. Un conto è che abbia sbagliato, un conto che scientemente abbia perseguito una pista depistante. Nonostante il corpo di Ilaria non fosse stato subito sottoposto ad autopsia, la sparizione dei suoi block notes, la violazione dei sigilli dei suoi bagagli, e tantissimi altri fatti, lui Taormina ha concluso che non c’era alcun mistero, che i due giornalisti non avevano scoperto alcun traffico, che erano semplicemente finiti “nel luogo sbagliato al momento sbagliato”. Ma Taormina è stato condananto per “violazione della Costituzione” per aver impedito alla Procura di svolgere assieme gli esami sulla macchina che lui fece portare in Italia, facendola passare per l’auto nella quale Ilaria e Miran furono ammazzati, ma che poi rivelò tracce di sangue di altra persona».
Oggi potrebbe ripetersi un altro caso Alpi-Hrovatin?
«No, ma solo grazie alle nuove tecnologie di comunicazione, che permettono di mandare dati, testi e foto in tempo reale. Questo non significa che non ci siano i mezzi per tappare la bocca ai giornalisti. Oggi si ammazza di meno, ma sono aumentate le intimidazioni, un giornalista si può inchiodare con decine di querele, oppure si chiama il direttore e lo si fa licenziare, oppure ancora lo si tiene nella precarietà».
Oggi l’Africa non è più la discarica dell’Occidente, o non se ne parla più?
«Me lo sono chiesto anch’io. La stagione delle grandi inchieste sui traffici dei rifiuti è legata agli anni ‘90. All’epoca la magistratura si è data da fare, poi più niente. O il traffico dei rifuti non è più lucroso, ma stento a crederlo, oppure sono diventati talmente bravi che non si riesce più a beccarli. I Rapporti di Legambiente evidenziano che cresce in maniera vertiginosa il traffico di materiale elettronico, mentre non si sente più parlare di rifiuti tossici industriali e radioattivi, che sono molto più pericolosi».
La gente che vive lungo la strada Bosaso-Garowe (quella dove sarebbero sepolti i rifiuti tossici) come se la passa? Si verificano ancora strane malattie?
«Tutto resta ben nascosto finché non succede qualcosa. Lo tsunami, per esempio, ha riportato in superfice e buttato in spiaggia fusti metallici. Quell’area è una bomba ad orologeria, destinata a scoppiare, non fosse altro per l’usura del tempo. Nei vari viaggi, ho intervistato medici che mi confermavano di aver riscontrato numeri esorbitanti di malattie non conformi alle patologie dell’area tropicale. “O i libri sui quali abbiamo studiato non valgono a niente, oppure ci spieghiamo che cosa sta succedendo in Somalia”, concludeva un medico del Cosv. Lo dissero a me, lo scrissero a chi di dovere, non è successo niente».
© 2010 Romina Gobbo
pubblicato su La Voce dei Berici – 20 marzo 2010