Bambini in attesa… di giudizio. Hanno derupato, stuprato, perpetrato rapine a mano armata, ucciso… Hanno dai 7 ai 17 anni. Uno di loro è stato perfino addestrato nei campi di Al-Qaeda. Sono i ragazzi inseriti nel “Children safety nets programm” della Ong Cefa (Comitato europeo per la formazione e l’agricoltura) di Bologna, in collaborazione con l’associazione Overseas di Modena. Il programma si concretizza a Nairobi, nella zona est di Kasarani, in un luogo protetto (Nairobi Children’s Remand Home), che accoglie minorenni abbandonati. Per la maggior parte sono scappati da casa e il 30% di loro ha un conflitto con la legge. Tutti attendono la decisione del Tribunale dei minorenni per sapere cosa ne sarà di loro. Nel frattempo, sono sotto la tutela dello Stato. «Oggi ospitiamo una media di 50, 60 ragazzini; nel 2005 ce n’erano 120, 130; nel 2000, addirittura 400. Significa che il reinserimento familiare, nostro obiettivo primario, ha funzionato – spiega Diego Ottolini, responsabile del progetto per il Cefa -. In genere devono scontare dalle tre settimane ai sei mesi. La polizia li porta qui, in attesa della decisione del giudice. Per lo più sono kenyoti, ma ci sono anche ragazzi dall’Uganda e dal Congo, nonché alcuni somali. Ci sono due sezioni, una maschile e una femminile. Il luogo naturalmente è sorvegliato».
Che tipo di servizio svolgete?
«Noi diamo risposta ai bisogni primari e forniamo supporto psicologico. Il primo passo è aiutare a ricostruire la lor autostima. Abbiamo una sezione di counselling, una educativa e una che si occupa di rintracciare la famiglia. È la parte più difficile. Innanzitutto perché spesso non conosciamo il vero nome dei ragazzi. Se loro non sono sinceri, per noi è un problema. Molti non sono neppure iscritti all’anagrafe. Bisogna costruire con il ragazzo un rapporto di fiducia, per poter arrivare al ricongiungimento familiare. Spesso si tratta di famiglie che vivono il disagio relazionale. I ragazzi che non si riesce a far rientrare in famiglia, vengono dichiarati adottabili. Noi facciamo riferimento alla famiglia in senso esteso: non solo i genitori, ma anche parenti, insegnanti, vicini di casa… È un lavoro di rete. Tutti assieme cerchiamo di ragionare in modo da dare al ragazzo le prospettive migliori».
Come si comportano i ragazzi con voi quando arrivano?
«L’atteggiamento tipico è: “Purtroppo mi hanno preso”. È un atteggiamento difensivo, di chiusura. Cerchiamo di far loro capire che si tratta di un’opportunità. C’è anche vergogna. La rapina a mano armata per il loro sentire è il crimine peggiore. Tentiamo anche un lavoro di restorative justice, cioè di riconciliazione tra vittima e aggressore».
Qual è la tipologia dei vostri utenti?
«Sono ragazzi magari viziati, scappati anche più volte da casa. Qualche madre è rimasta incinta per sbaglio; si sente in colpa e riversa questa colpa sul figlio. Cerchiamo di farle capire che il figlio non c’entra con i suoi errori. I ragazzi più a rischio sono quelli in situazioni di povertà, di degrado, ma il problema è soprattutto la povertà relazionale. La maggior parte viene dagli slum. Per chi sta nelle baraccopoli vivere o morire è la stessa cosa. Rubano magari per comprarsi il cellulare. Ma qui la polizia spara».
Qualche cifra per capire il vostro indice di successo.
«Su cento reinserimenti, il 60-65% è in famiglia; il 30% in altre istituzioni. Del 65% reintegrato, il 5-10% scappa di nuovo. Per questo cerchiamo di prevenire, lavorando anche con progetti di sensibilizzazione nelle scuole».
Il progetto del Cefa è iniziato nel 2005 grazie a fondi privati; nel 2006-2007 sono intervenuti la Regione Veneto e il Ministero degli affari esteri, ma il finanziamento finirà a breve. L’obiettivo è lavorare, non solo sul minorenne, ma anche sul sistema, per questo il personale (undici persone) è governativo. E il Ministero kenyano per la donna, i minori e lo sviluppo sociale, è partner nell’iniziativa. «Siamo qui per trasferire speranza. Noi ce l’abbiamo. La sfida è trasferirla ai ragazzi e alle loro famiglie!, conclude Ottolini.
© 2010 Romina Gobbo – Servizio da Nairobi, Kenya
pubblicato su La Voce dei Berici – domenica 18 aprile 2010 – pag. 35 Approfondimento