Nairobi, Korogocho. E il mondo finì… in una discarica

Nairobi, gennaio 2010, obiettivo Korogocho, una delle duecento baraccopoli della capitale keniana. Siamo invitati alla messa domenicale delle 10 nella chiesa di St. John, parrocchia di Kariobangi, 15mila fedeli, guidati dai comboniani padre Mario Porto (il parroco, vicentino di origine), padre Paolo Latorre, padre John Webootsa e padre Stefano Giudici. Ci stanno aspettando. Ci accompagnano la polvere, che accomuna tutta l’Africa e il fumo nero dei tubi di scappamento. Sbagliamo strada più volte, perché Korogocho è un intrico di vie, alcune impossibili da percorre con l’auto, altre chiuse, altre ancora percorse da masse umane che non lasciano passare i veicoli. Gli africani sono un popolo in cammino, sempre. Il vero miracolo sono le ragazze che riscono a “guadare” con i tacchi alti strade che sono fognature a cielo aperto. Continuo a non spiegarmelo mentre guardo i miei scarponi, per niente femminili, ma per me indispensabili. E non è ancora niente. Bisogna esserci alla stagione delle piogge, quando la povere diventa fango e le strade paludi. Si chiamino slum, baraccopoli, compouns, barrios, favelas, rappresentano sempre lo stesso girone dell’inferno, dove dilagano mercato nero, droga, disoccupazione, prostituzione e criminalità organizzata, oltre ai delinquenti comuni; dove la vita non vale niente, essere ammazzati dal bulletto di turno non è poi così raro. «Korogocho è stata mitizzata, vuoi per il carisma di padre Alex Zanotelli, vuoi perché la miseria, più è nera, e più ripulisce la coscienza dell’Occidente – dice padre Latorre -. In realtà è parte di un mondo, un mondo dove la crescita demografica è fuori controllo. La prospettiva è di un ingrossarsi continuo delle megalopoli – fiumi di persone si riversano incessantemente dalle zone rurali alle città -, dove la maggior parte – almeno tre miliardi di persone – finirà con il vivere negli slum (slum dwellers)». Che, tanto per chiarire, significa abitare baracche di fango e lamiera, dagli affitti sempre troppo alti, perché gli strictures owners (proprietari delle baracche) lucrano sulla pelle dei baraccati. L’Italia ha riconvertito il debito in un programma di slum upgrading, per la costruzione di una strada asfaltata. C’è da scommettere che a fine opera, le “case” costeranno ancora di più.

La scarsità di acqua corrente rimane uno dei problemi più gravi di Korogocho, unitamente alla mancanza di infrastrutture, programmi di istruzione, elettricità, misure igieniche appropriate, luoghi di aggregazione e svago per giovani e bambini. Padre Paolo sta qui da sei anni, ma ci tiene a non venir considerato un eroe, anzi, vorrebbe non essere neppure citato, perché «è delle persone che bisogna parlare, del popolo di Korogocho, un miscuglio, un caos, questo significa il nome». Azzeccatissimo per un popolo fatto di contraddizioni, di differenze linguistiche, etniche (30 gruppi diversi), di differenze sociali, dove il più “ricco” tende a emarginare il più povero. Un miscuglio esplosivo che nel 2007 ha portato al sanguinoso conflitto tra le etnie luo e kikuyo. Come si fa a raccontare una realtà così complessa in poche righe? Come si fa a raccontarla se non ci si è vissuti, ma si è solo passati qualche ora? Padre Paolo se lo chiede spesso, quando arrivano le troupe televisive in cerca di una storia “lacrimevole”. Cosa può capire un giornalista che arriva, si ferma qualche ora, si guarda in giro, e poi se ne torna nella sua comoda redazione? La fonte può essere soltanto il racconto del missionario, o di qualche abitante. Manca l’esperienza diretta. Non volevo essere come i “colleghi di passaggio”. Ma è vero che anch’io a Korogocho mi sono fermata poco. Ho però dalla mia, la frequentazione di altre realtà accomunate dalle stesse miserie: Etiopia, Senegal, Guinea, Zambia. Sta meglio chi vive nei villaggi, almeno il nucleo familiare riesce a reggere. Nelle baraccopoli le famiglie spesso si disgregano; gli uomini vanno a prostitute, l’Aids uccide, sulla strada restano migliaia di orfani. Moltissimi bambini di strada per sfuggire ai morsi della fame “si fanno” di colla, o si ubriacano di Jet 5, una porcheria di alcol che deriva dall’olio bruciato degli aerei. Abbandonati, affamati, malati, senza più prospettive, fino a quando uno come Zanotelli, come Moschetti (successore di Zanotelli, ndr), come Porto, come Latorre o come Giudici una prospettiva la crea. Ecco allora i centri per bambini di strada, i progetti educativi, di formazione… A Korogocho ci sono anche le suore di Madre Teresa, i laici, i volontari, le organizzazioni non governative… «Si fa quello che si può per dare dignità a vite appese ad un filo», continua Latorre. Una comunità dove il 70% è sotto i trent’anni; e dove la vita media è 47-50. Un mondo alla rovescia per noi occidentali.

Korogocho, che si estende su un’area di 1,5 kmq, ed è abitata da circa 120mila abitanti, non è la baraccopoli più grande di Nairobi – la più grande è Kibera, che di abitanti ne fa 800mila -, ma è la più conosciuta fuori dall’Africa perché confina con la discarica di Dandora (lì chiamata Mukuru), dove confluiscono i rifiuti (2.000 tonnellate al giorno) di tutta l’area urbana di Nairobi. Una montagna (più grande dell’intera Korogocho) di due chilometri quadrati di immondizia, che esala fumi maleodoranti e tossici: un misto di piombo, cadmio e furano che provoca danni irreversibili all’apparato immunitario, nervoso, endocrino e riproduttivo. Korogocho è costituita da sette villaggi: Highridge, Grogan, Ngomongo, Ngunyumu, Githaturu, Kisumu Ndogo/Nyayo e Korogocho. Highridge è il uogo più vicino alla discarica che – ironia della sorte – è anche polmone vitale dell’economia locale. I bambini (scavenger, cercatori) rovistano nella spazzatura, cercando avanzi di cibo o qualsiasi oggetto vendibile: raccolgono quanto ha buttato il popolo della Nairobi bene, quello che, come distanza fisica, abita a qualche chilometro, ma per il resto, è come se vivesse su Marte. Secondo uno studio condotto a Nairobi dall’Unep, organismo Onu per l’ambiente, su 328 bambini di Korogocho, di età tra 2 e 18 anni, almeno la metà è “imbottito” di metalli pesanti.

Sollecitato dai padre comboniani, il Ministero dell’ambiente italiano ha scelto di collaborare con quello kenyota per cercare di far spostare la discarica, attiva ormai da trent’anni, quando tutte le norme internazionali chiedono che le discariche vengano chiuse dopo 10-15 anni di utilizzo. Costo del “trasloco”: 30 milioni di dollari. Ma la violenza post elettorale del dicembre 2007 e la formazione di un governo di unità nazionale in Kenya hanno cambiato le priorità del governo e la discarica di Dandora è scomparsa dall’agenda politica. Sono troppi gli interessi economici che muove. Venti scellini ovvero 20 centesimi di euro. È quanto basta per andare con una prostituta. Il tasso di indigenza si misura anche dal costo dei servizi.

Per saperne di più: http://www.korogocho.org

© 2010 Romina Gobbo – servizio da Nairobi, Kenya

pubblicato su La Voce dei Berici – domenica 18 aprile 2010 – pag. 35 Approfondimento

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