Sono trascorsi cinquant’anni e molti sogni si sono infranti

Nel 1960 ben diciassette Paesi africani si liberarono dalle potenze coloniali. Il 28 novembre toccò alla Mauritania

Mentre restiamo in attesa di ciò che succederà il 9 gennaio 2011, quando ci sarà il referendum per l’indipendenza del Sud Sudan, facciamo un passo indietro. Era il 1960 e fu dichiarato l’Anno dell’Africa. In quei mesi, infatti, il continente si incamminava sulla strada dell’indipendenza e diciassette colonie si riscattarono dalla soggezione alla Francia, alla Gran Bretagna, al Belgio. Mentre le colonie portoghesi dovettero aspettare la metà degli anni Settanta. Gli anni Sessanta furono anche quelli della nascita, il 25 maggio 1963, dell’Organizzazione per l’Unità africana e avrebbe alimentato l’utopia degli Stati Uniti d’Africa. Ma anche il sogno di un avvenire promettente, grazie alle risorse naturali e umane e a una politica accorta, si è ben presto infranto. Ne parliamo con Luciano Scalettari, inviato di Famiglia Cristiana, esperto di continente africano.

Che cosa avvenne in Africa negli anni Sessanta?

«C’era un grande entusiasmo. C’erano figure di grande spessore: dal ghanese Kwame Nhrumah al kenyota Jomo Kenyatta, dal senegalese Leopold Sedar Senghor allo zambiano Kenneth Kaunda. Questi uomini illuminati – i padri della patria – guidarono i movimenti indipendentisti e panafricani, e ciò rese possibile una grande mobilitazione popolare. A parte alcuni aspetti più di guerriglia, i movimenti erano di massa, tant’è che queste liberazioni sono maturate in un tempo abbastanza ridotto. Quella stagione lì è finita male anche perché alcuni dei protagonisti sono stati ammazzati, ma la cosa più deludente è che di questi ideali, di quella spinta è rimasto poco. Gli ex colonialisti hanno utilizzato tecniche e sistemi molto sofisticati per imbrigliare questa carica, per vanificarla, ma hanno dato una forte mano anche le leadership africane. Mugabe (Zimbabwe) all’inizio era considerato una speranza, lo stesso Mobuto (Repubblica Democratica del Congo). Sembravano figure che potevano guidare il Paese, invece hanno gestito il potere per interessi personali, trasformandosi poi in dittatori più o meno feroci, più o meno sanguinari, e le classi dirigenti si sono dimostrate inadeguate. Sono mancati la maturità, il cammino politico, la coscienza. L’Africa, commettendo un grave errore, ha accolto da noi e applicato la nostra idea della politica: il tipo di elezioni, di struttura militare, di istituzioni. Sono stati cambiati gli uomini, ma l’organizzazione è rimasta la stessa. Possiamo trovare un’attenuante nel fatto che partivano con tutti gli svantaggi possibili, tra cui un tasso di alfabetizzazione bassissimo».

Gli “Obiettivi del Millennio” non saranno raggiunti. L’Italia è uno dei Paesi che meno mantiene le promesse. Perché grandi proclami e pochi fatti?

«La mappa non è omogenea. L’Italia è la maglia nera, almeno dal 2000 sta facendo promesse che regolarmente non mantiene, e che hanno arrecato danno. Dopo di che c’è da dire che l’Italia di fatto non ha una politica estera da diversi anni, perciò questa è solo una conseguenza. Per esempio, non facciamo più cooperazione da anni. Neppure la Lega, che potrebbe interpretarla come un modo per tenere gli immigrati al loro Paese, ha fatto nulla. Poco anche i governi di centro-sinistra. La riforma della cooperazione non è stata realizzata. Abbiamo una scatola vuota, una struttura che è quasi un malato terminale. Gli ultimi 5, 6 anni sono stati i più disastrosi. L’Italia si è basata sulla politica estera del “è mio amico”, dell’amicizia personale, vera o presunta, fingendo che i problemi vengano risolti. Il che è falso e svilisce il nostro Paese. Per quanto riguarda gli Obiettivi del Millennio, la situazione è variegata. Nessuno – pare – riuscirà a rispettarli. L’Europa del nord è uno dei donatori: all’interno di essa qualche Paese ha raggiunto l’obiettivo (lo 0,7% del Pil) qualcuno è addirittura oltre (la Norvegia). Altri li raggiungeranno. Altri per nulla, come l’Italia. Per quanto attiene ai Paesi beneficiari, la situazione è a macchia di leopardo. Alcuni hanno corso molto e sono riusciti a migliorare molto in alcuni obiettivi: il Rwanda, essendo in pace dal ’94, un arco di tempo abbastanza lungo, dal 2000 in poi, ha visto una crescita significativa, per esempio nella battaglia contro l’aids. Tutti i centri di salute sono stati dotati di un minimo di struttura di prevenzione. Erano 11, sono 300. Quasi nessun Paese ha raggiunto tutti otto gli obiettivi, qualcuno ha lavorato più sulla questione sanitaria, altri sull’economia, qualcuno ha ottenuto risultati sulle questioni di genere… C’è poi la fascia dei Paesi “un po’ luci e ombre”, come il Kenya, che pur non avendo avuto guerre da molti anni, pur partendo da una situazione buona, pur avendo una società civile molto attiva, è cresciuto meno di quanto avrebbe potuto. Evidentemente la classe politica non è stata all’altezza. Nel 2007, c’è stato un arresto. La questione etnica è entrata prepotentemente nelle elezioni, provocando centinaia di morti. La situazione ha destato grande preoccupazione, perché se salta il Kenya, salta tutta l’Africa orientale. Oggi, si comincia a vedere qualche segnale positivo sul fronte della povertà estrema; nelle baraccopoli sono stati effettuati alcuni interventi, anche infrastrutturali, grazie all’arrivo dei cinesi. Tuttavia, è difficile rimarginare una frattura. Si teme che la questione etnica si riproponga alle prossime elezioni. D’altra parte, è il grimaldello più facile per ottenere un seguito, per muovere i baraccati, la parte della società più strumentalizzabile. In Uganda, Liberia, Sierra Leone, ci sono segnali di avvio, ma niente di più. Laddove realmente i Paesi donatori hanno investito, ci sono stati risultati».

La Cina, e poi India, Brasile, Iran: sono i nuovi colonizzatori?

«Io non riesco a mandar giù una cosa. Tutti denunciano il neocolonialismo cinese, ma noi non abbiamo nessun titolo per giudicare gli altri. Noi l’abbiamo fatto fino all’altro ieri e, sotto altri aspetti, continuiamo a farlo. Il sistema occidentale è più raffinato: da una parte deprediamo il Congo, dall’altra mettiamo in piedi la cordata dell’umanitario. Questa macchina è diventata il paravento per dire che l’Occidente ha un atteggiamento diverso. Intanto noi continuiamo a dare molto meno di quello che gli africani ricevono dalle rimesse dei loro connazionali all’estero (tre volte l’aiuto del nord del mondo al sud del mondo). Dal punto di vista dell’intervento delle multinazionali, non vedo differenze apprezzabili. I cinesi non hanno paraventi, stanno intervenendo a gamba tesa, senza porsi il problema della facciata. Loro dicono: noi siamo qui per affari, siamo accomunati dall’essere stati sfruttati dall’Occidente, veniamo a proporvi di fare affari insieme, vi facciamo le strade… Ed è una relazione commerciale totale, dal petrolio alle ciabattine infradito. Questo innesca la ripresa di alcuni fenomeni che sembravano in via di riduzione: per esempio, la corruzione, che sembrava avere un minimo di controllo e di condanna dalla comunità internazionale, e aveva portato qualche remora in più per l’uomo di stato africano. I cinesi riaprono questa totale discrezionalità. Siamo in un mercato dove l’Africa è una bancarella e sembra che ognuno possa andare a fare le proposte che vuole. Se non ci diamo regole, chi corrompe di più ottiene un appalto: questo è molto pericoloso».

Segni di speranza?

«Se la corsa selvaggia di oggi diventasse l’occasione per ragionare, per darsi qualche regola, potrebbe diventare una straordinaria opportunità. Ben vengano i cinesi, se si smaschera la finta umanità occidentale. Bene ha fatto Obama a dire che siamo in un mondo multipolare. Nessuno può pensare di governare il mondo da solo. Le due grandi speranze sono le nuove tecnologie e la società civile africana. Il Rwanda sta stendendo fibre ottiche di ultimissima generazione in tutto il Paese. Il Sudan, paese che non ha niente (20 km di strada in tutto, altissimo analfabetismo), ha un sistema di comunicazione mobile e internet quasi dignitoso. Ciò indica che siamo in una fase in cui l’Africa in alcuni ambiti può saltare dei passaggi, passando direttamente all’ultima generazione di collegamenti satellitari, o di telemedicina. Questa è la prospettiva. Le compagnie di telefonia mobile concordano nel dire che la crescita maggiore di business è in Africa. Poi, c’è la società civile, vivacissima. La consapevolezza dei diritti, l’interesse alla politica, alla cosa pubblica, i sogni, i desideri, gli obiettivi che si dà anche la persona comune, sono di alto livello. Qualsiasi giovane africano ha una consapevolezza del suo Paese, in relazione agli altri, che il suo coetaneo italiano, anche molto più acculturato, se la sogna. Mettiamo insieme questo con le nuove opportunità tecnologiche, non so immaginare bene che esito possa dare, ma ne vedremo delle belle».

© 2011 Romina Gobbo

pubblicato su La Voce dei Berici, domenica 28 novembre 2010

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