C’è un’esperienza molto interessante a Gerusalemme, sicuramente nuova per la storia della Chiesa. Si tratta di una comunità cattolica di lingua ebraica in una società prevalentemente ebraica. Ne parliamo con il fondatore, padre David M. Neuhaus.
Padre Neuhaus, che tipo di esperienza è esattamente la vostra?
«La novità non è solo vivere in una società a maggioranza ebraica – una società, quindi, che trova la sua identità nella storia e nella tradizione ebraica, ma anche vivere in una comunità cattolica che parla la lingua ebraica. Questo significa non solo essere sensibili al mondo ebraico, alle sue tradizioni e pratiche, ma anche ripensare la nostra fede cristiana in una lingua che è quella delle scritture in ebraico. È una sfida stimolante, ma anche un percorso solitario».
Ci sono comunità cattoliche di lingua ebraica nelle quattro maggiori città di Israele. Quanto sono grandi queste comunità? Quali sono i principali ostacoli che devono affrontare?
«Le nostre comunità sono piccole. Inoltre, in aggiunta alle quattro comunità storiche (fondate negli anni ’50 e ’60), ne abbiamo tre di nuove e i nostri preti sono attivi nella ricerca della “pecora smarrita”. Nel territorio, in tutto possiamo contare su circa 500 persone che frequentano le nostre comunità di preghiera. Oggi in Israele ci sono migliaia di bambini cattolici che parlano ebraico come prima lingua: sono figli di lavoratori stranieri, rifugiati e arabi che cercano lavoro nelle città giudaiche. I bambini non frequentano le nostre comunità di preghiera, ma fanno parte della nostra responsabilità di catechesi, poiché al loro lingua primaria di apprendimento e comunicazione è l’ebraico. L’ostacolo maggiore al nostro lavoro è la non visibilità della Chiesa nella società israeliana giudaica di lingua ebraica. Non abbiamo istituzioni cattoliche in lingua ebraica: non ci sono scuole, né scuole domenicali, né servizi sociali… È più semplice (e forse anche più logico) che i bambini cattolici siano semplicemente assimilati nella società israeliana secolare. Ciò semplifica la nostra vita, poiché siamo una comunità piccola».
In che modo la comunità cattolica di lingua ebraica favorisce i legami con la società ebraica israeliana?
«Viviamo nel cuore della società ebraica israeliana, lavoriamo, studiamo, e trascorriamo ogni giorno la nostra vita con ebrei israeliani e alcuni di noi, di fede cattolica, sono israeliani ebrei per appartenenza, storia e cultura. Il problema qui non sono tanto le relazioni con questa società, ma piuttosto come realizzare la nostra fede all’interno della società di cui siamo parte. Abbiamo provato con difficoltà ad aiutare la società a superare alcuni pregiudizi negativi nei confronti della cristianità, della Chiesa e dei cristiani, alcuni di questi pregiudizi sono il risultato dei capitoli più drammatici della storia ebraica in Europa. Cerchiamo inoltre di promuovere i valori del Vangelo all’interno di una società che si vede assediata e in guerra. Siamo chiamati a essere un ponte fra Israele e la Chiesa, ma anche tra gli ebrei israeliani e la maggioranza dei nostri fratelli e sorelle cattolici che sono arabi».
I cattolici di lingua ebraica sono pienamente integrati nella società israeliana? Per esempio, in politica, nel settore educativo, nelle imprese?
“L’integrazione è fondamentale per vivere come israeliani in una società ebraica. I nostri fedeli sono integrati nel mondo del lavoro e nella scuola. Assolvono ai doveri civili, incluso il servizio militare e il pagamento delle tasse, come chiunque altro. La maggior parte sono persone comuni che vivono una vita normale. Membri della nostra comunità insegnano nelle università, fanno servizio negli ospedali come dottori e infermieri e lavorano nel sociale. Uno dei pionieri della nostra comunità è padre Bruno Hussar, che fondò il famoso villaggio della pace ‘Nevé Shalom/Waahat as-Salaam’, dove convivono famiglie arabe ed israeliane. Un altro, fratello Elihai, noto linguista, ha contribuito alla comunicazione tra ebrei e arabi. Inoltre, padre Marcel Jacques Dubois, religioso domenicano recentemente scomparso, per alcuni anni è stato a capo del dipartimento di filosofia dell’università ebraica”.
Come vi rapportate con i bambini? Come fate per insegnare loro la fede cattolica, visto che frequentano scuole ebraiche?
«Questa è una sfida enorme. I nostri bambini sono integrati nelle scuole israeliane ebraiche, dove ricevono un’eccellente educazione, ma nessun insegnamento circa la fede cristiana. Questo spetta a noi. Cerchiamo di fare del nostro meglio per non creare loro una situazione schizofrenica, cioè che sentano una cosa a scuola e un’altra in chiesa o nelle lezioni di educazione religiosa. Vogliamo continuare ciò che essi sentono a scuola riguardo al Nuovo Testamento e alla tradizione ebraica, mostrando come Gesù, nostro salvatore ebreo, ha creato la fede e la pratica in Israele. Tutto questo deve essere fatto con attenzione, in modo da consentire ai bambini di integrare i due aspetti delle loro vite; la loro cultura israeliana-ebraica e la loro fede cristiana».
Lei si è convertito da adulto al cattolicesimo. Perché questa scelta?
«Sono un ebreo israeliano arrivato a conoscere Cristo attraverso la potente testimonianza di una donna religiosa. La sua gioia era la sua testimonianza e io sono stato subito colpito. Ho voluto ricercare l’origine di questa gioia, così sono arrivato a conoscere Gesù. Tuttavia mi ci è voluto molto tempo prima di ricevere il battesimo. Volevo che i miei genitori accettassero la mia decisione, e con il tempo ci sono riusciti. Noi che siamo ebrei, quando entriamo a far parte della Chiesa cattolica dobbiamo integrare diversi aspetti della nostra identità e questo non è semplice alla luce dei drammatici episodi nella storia di Israele e della Chiesa».
Ha detto di essere stato affascinato dalla figura di Cristo. Che cosa della figura di Cristo l’ha affascinata e continua ad affascinarla? L’ebraismo di Cristo?
«Non è stato l’ebraismo di Cristo, ma piuttosto l’amore di Cristo. Questa è la sfida che Lui ci ha lanciato: amare come Lui ci ha amati. Il che è strettamente correlato con il ministero del perdono, che Egli ha iniziato. Senza il perdono del peccato, non ci può essere amore. E’ stata la gioia che mi ha attratto ed è l’amore che mi fa andare avanti: non il mio amore per Lui, ma il Suo amore per me e per tutti quelli attorno a me. Questo mi permette di immaginare un mondo molto diverso da quello in cui viviamo: un mondo che rinasce dalla tomba vuota, un mondo nella Resurrezione».
È possibile per un cristiano esprimere la propria fede senza tener conto delle radici ebraiche?
«Senza Abramo, senza Mosè, senza Davide, senza i profeti e senza le vicissitudini della gente ebrea nel Vecchio Testamento, l’insegnamento di Gesù e del Nuovo Testamento non avrebbero senso. Le nostre radici definiscono la nostra identità, il nostro passato, il nostro presente e il nostro futuro. Le nostre radici come cristiani sono infatti ebraiche e senza di esse è come se vivessimo sulle sabbie mobili».
Come si configura il dialogo ebraico-cristiano in un Paese a maggioranza ebraica?
«Il dialogo qui è molto diverso da quello che potrebbe essere in Europa o altrove, perché qui i cristiani sono una piccola minoranza. Inoltre, per la maggior parte sono arabi palestinesi, che stanno ancora vivendo in uno stato di tragico conflitto con gli israeliani, in maggioranza ebrei. il dialogo qui non ha inizio dallo stesso punto come in Europa e deve affrontare sfide serie, che non sempre è facile superare».
Il cristianesimo riscopre l’ebraismo anche per senso di colpa dopo l’antisemitismo?
«Il senso di colpa, che è piuttosto diffuso dopo la Shoàh tra i cristiani europei, porterà buon frutto solo se aprirà il cuore dei cristiani ai fratelli e sorelle ebrei, e non solo a loro, ma anche a tutti gli altri non cristiani in Europa e altrove. La colpa in sé stessa non è una cosa positiva, ma se è in grado di trasformare il modo in cui pensiamo, parliamo e agiamo, può portare buoni risultati».
Come sarà il vostro Natale? Come vi apprestate a celebrarlo?
«Il Natale qui è diverso, perché non c’è una base socio-culturale. Il Natale è una questione molto privata, che ci può aiutare a prepararci più spiritualmente. Noi non vediamo il Natale nelle vetrine o nelle luci delle strade. Ma piuttosto vogliamo focalizzare la nostra attenzione sul messaggio del Natale ai nostri giorni, sulla preghiera e sulla riflessione. La sfida di ogni anno è fare del Natale una vera, autentica esplosione di gioia, in modo che i nostri fedeli possano portare con sé quella gioia nella società in cui vivono».
© 2010 Romina Gobbo
pubblicato su La Voce dei Berici – inserto Natale 2010 – 26 dicembre 2010