Due popoli, tre religioni, un unico territorio

Non si può parlare della situazione dei cristiani in Medio Oriente se non vi si reca. Non ha dubbi su questo don Nandino Capovilla, coordinatore nazionale di Pax Christi; si occupa, in particolare, della campagna “Ponti e non muri”, in Terra Santa. «Il Medio Oriente è una realtà da noi poco conosciuta. I cristiani di cui parliamo di più sono quelli in Terra Santa, ma le notizie ci arrivano filtrate dagli organi di stampa locali, che poche volte sono obiettivi. Bisogna, perciò, andare ad ascoltare realmente le voci dei cristiani, con il pellegrinaggio, per esempio. Ascoltandoli, partecipando a quello che realmente vivono, si entra in una storia di secoli, legata principalmente alla loro terra». Perciò qui la questione non è solo religiosa, è anche storica, di appartenenza a uno stesso territorio. «Certo. Questo popolo e questa terra sono segnati proprio dalla storia comune. L’attuale patriarca di Gerusalemme, Fouad Twal e il suo predecessore Michel Sabbah, dicono che la loro realtà di cristiani è segnata dall’essere popolo palestinese. Questo sentirsi parte dello stesso popolo, indipendentemente dall’essere cristiani o musulmani, è nel loro dna, e questo li segna in modo fortissimo. Sabbah dice: «Noi viviamo insieme sulla nostra terra. Viviamo come cristiani e come musulmani, siamo parte dello stesso Paese».

Allora perché emigrano i cristiani?

«I cristiani di Palestina oggi sono meno del 2 per cento. Bisogna andare oltre il pensiero che se ne vanno eprché sono perseguitati. Sono parte dello stesso popolo, hanno le radici nella stessa terra e insieme vogliono costruire la stessa società. Lo fanno da 1.400 anni e perciò per loro è normale. Ma nella storia chi è minoranza ha e avrà sempre delle difficoltà. Per esempio, a Betlemme, una volta la maggioranza era cristiana, oggi è musulmana. Nei Territori Occupati i cristiani sono l’1,6 per cento della popolazione; in Israele l’1,7. Per cui si verificano spesso episodi in cui i cristiani si trovano a subire situazioni di fanatismo, per esempio del fondamentalismo islamico, oppure discriminazioni non motivate dalla fede, ma dal problema di rapporti tra famiglie, o nel Paese. Nella vita quotidiana compaiono problemi, non solo tra musulmani e cristiani, ma anche tra musulmani e musulmani, o tra cristiani e cristiani».

Anche la militarizzazione del Paese non rende la vita facile.

«Infatti. Ma l’occupazione militare, per certi aspetti, avvicina cristiani e musulmani, i quali, entrambi palestinesi, si trovano a vivere la stessa sofferenza. Poi c’è la questione mai risolta di Gerusalemme. Dovrebbe essere una città divisa in due (Est e Ovest), con la parte Est capitale del futuro Stato di Palestina. Israele non è d’accordo, perché Gerusalemme è una città unita. Nel momento in cui lo Stato di Israele si dichiara Stato ebraico, va da sé che i cittadini di altre religioni automaticamente siano discriminati. Ed ecco allora la confisca della terra, la distruzione delle case, la difficoltà di movimento con strade percorribili solo dagli ebrei, l’accesso ai Luoghi Santi condizionato da permessi militari… La discriminazione è conseguenza del non essere ebrei. È evidente che una vita così è insopportabile, perciò i cristiani se ne vanno. Questa emigrazione nasce dall’assenza di qualunque barlume di speranza. Sono soprattutto i giovani a emigrare, così il Paese si trova deprivato delle sue forze migliori. E poi non va taciuto il problema demografico».

© 2011 Romina Gobbo

pubblicato su La Voce dei Berici – inserto “Libertà religiosa nel mondo. Rapporto 2010” – domenica 12 giugno 2011

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