Cominciamo la nostra panoramica sulle zone dove la libertà religiosa è più a rischio, parlando con Martino Diez, direttore della Fondazione internazionale Oasis (con sede a Venezia), della situazione del Medio Oriente, dove i cristiani sono circa 20 milioni, cioè il 5,90 per cento della popolazione (dati dell’Annuarium Statisticum Ecclesiae 2008, nella sua ultima edizione, dell’anno 2010).
Laureato in Lingue e Civiltà orientali, Diez ha conseguito nel 2007 il dottorato di ricerca in Studi orientali presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Dal 2008 è docente a contratto di Linguistica araba presso l’Università Cattolica di Milano e docente incaricato presso lo Studium Generale Marcianum di Venezia.
Dottor Diez, in Medio Oriente libertà religiosa significa sostanzialmente libertà di culto?
«Grosso modo sì, ed è questo il problema. Sarebbe ingeneroso non riconoscere che nella maggior parte dei Paesi mediorientali, con la dolorosa eccezione dell’Arabia Saudita, esiste libertà di culto. Al tempo stesso si registrano generalmente gravi difficoltà per passare dall’Islam a un’altra fede. Non a caso è stato un libanese, Charles Malik, a insistere perché nell’articolo 18 della Dichiarazione Onu dei diritti umani, del 1948, fosse inserita la clausola “tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo”, una formulazione significativamente assente dalla Dichiarazione del cairo sui diritti umani nell’Islam del 1990. Bisogna però aggiungere che il dibattito su questo tema ha conosciuto nuovi sviluppi negli ultimi dieci anni, anche per un fatto molto concreto: a causa dei maggiori contatti tra le culture e dell’emigrazione, si è creata oggi una corrente di conversioni dall’Islam e verso l’Islam di una certa dimensione. Quello che prima era solo un problema di scuola è ora spesso una questione pratica molto spinosa e da più parti si invoca una revisione delle norme tradizionali. In ogni caso, come insiste a ricordare Benedetto XVI, la libertà religiosa è senza dubbio un elemento essenziale per il futuro di queste società. Il caso del Libano è emblematico. Non è una terra particolarmente ricca, ma l’esistenza di una sostanziale libertà religiosa, pur attenuata dal forte comunitarismo, ha stimolato le componenti della società a un confronto reciproco, da cui è nato, per esempio, un sistema scolastico superiore alla media degli altri Paesi della regione. Il dibattito è a volte doloroso, però è anche molto fecondo».
La situazione è peggiorata negli ultimi anni oppure le discriminazioni hanno oggi maggiore risonanza?
«Come vediamo oggi con chiarezza, tutto il Medio Oriente è in travaglio. Il processo è iniziato da parecchio tempo e naturalmente le minoranze ne avvertono il peso in modo particolare. Scelte politiche sbagliate hanno determinato la quasi scomparsa delle comunità cristiane irachene e palestinesi, mentre negli ultimi anni si è andata molto aggravando la situazione dei copti in Egitto. Però proprio da quel Paese sono venuti segnali nuovi e incoraggianti. Durante le manifestazioni che chiedevano le dimissioni di Mubarak, cristiani e musulmani si sono ritrovati insieme. Un momento particolarmente drammatico è stato quando diversi delinquenti comuni sono evasi indisturbati dalle carceri: il governo non assicurava più l’ordine pubblico e la gente si è organizzata come poteva per proteggere le proprietà. Mi diceva un amico egiziano che cristiani e musulmani hanno creato dei comitati spontanei nei quartieri, finché è ritornata un po’ di calma. Rispetto al clima di sospetto e contrapposizioni, alimentate ad arte, dei mesi scorsi, è un’altra aria che si respira. La domanda è se durerà, ma bisogna anche dire che nessuno un anno fa avrebbe scommesso su una rivoluzione pacifica in Egitto o Tunisia».
Come si costruisce il dialogo ecumenico in Paesi dove le religioni hanno un ruolo e un peso molto diverso?
«I cristiani sanno bene di essere minoranza. A volte hanno la tentazione di rinchiudersi sulle loro posizioni o di affidarsi al potente di turno (una politica molto pericolosa, come si è visto in Iraq). In gran parte però hanno deciso di giocarsi tutto sul concetto di muwatana, concittadinanza: essere, cioè, cittadini come i musulmani e con i musulmani, con i quali condividono la lingua e la cultura. Tutavia questo progetto politico, per esplicarsi, necessita di un minimo di sicrezza e garanzie. E qui l’Occidente può fare molto, non chiedendo privilegi per alcuni, ma favorendo i diritti di tutti».
Diciamo “cristiani orientali”, ma dovremmo dire copti, maroniti, melkiti, caldei… come si fa a districarsi in questo mosaico?
«Non è facile, è come un trattato di storia della Chiesa in miniatura… Nella regione si contano almeno sei comunità cristiane tradizionali, molto antiche, ognuna delle quali, a parte i maroniti, si divide in due tronconi, uno unito a Roma e uno autonomo. La componente autonoma è numericamente superiore alle Chiese unite a Roma (le cosiddette Chiese orientali cattoliche), tra l’altro in continua contrazione a causa dell’esodo dei fedeli. Non va poi dimenticata l’intensa immigrazione filippina e indiana verso il Golfo, che sta rapidamente modificando gli equilibri del passato: i latini, che finora erano la comunità cattolica più piccola, contano già tanti fedeli quanti tutte le Chiese orientali cattoliche. Anche in ambito ecclesiale la globalizzazione cambia gli equilibri interni. In questo contesto la sfida è valorizzare il ricco patrimonio delle comunità orientali. La strada è però quella di una maggiore comunione, oltre i particolarismi».
© 2011 Romina Gobbo
pubblicato su La Voce dei Berici – Inserto libertà religiosa nel mondo 2010 “Quando pregare diventa difficile” – domenica 12 giugno 2011