Maria chiama. La Romania risponde. Anche quest’anno la Dormizione della Vergine, la più grande festa liturgica mariana della Chiesa bizantina, fissata il 15 agosto da un editto dell’imperatore Maurizio, alla fine del VI secolo, viene celebrata da una spiritualità semplice, popolare, tenera. Tenera come il termine stesso, “Dormizione”, perché la morte della Madonna è stata assimilata a un sonno. A Cacica (distretto di Suceava), storica regione della Moldavia, nella Romania orientale), e a Nicula (nel nord della Transilvania), la popolazione esprime la gioia per il grande prodigio dell’assunzione. Una massa di gente orante torna ogni anno alle radici della propria fede, recandosi in pellegrinaggio verso i due santuari, ai quali si accosta con spirito di ricerca, di pentimento, di gratitudine e di apertura alla grazia divina. Perché la Madre di Gesù è sentita come una figura umana, più vicina e misericordiosa; la si invoca per chiederle protezione contro i mali del corpo e dell’anima. Al suo cospetto, spariscono la paura, la solitudine, l’angoscia. Fin dalle origini della storia cristiana della Romania, la Madre di Dio è stata venerata come regina e patrona della nazione. Almeno un centinaio di chiese le sono dedicate, e non è un caso che Giovanni Paolo II definì questa terra “il giardino della Madre del Signore”.
A Cacica si comincia già dal pomeriggio del 14. E’ il momento dei giovani, che esprimono il loro grazie con musica, canti e balli. Ma è la sera che la suggestione cresce. Tra liturgie con prediche in polacco e tedesco, si avvia a processione con la statua della Madonna. Una miriade di candele accese rischiara il buio. Il santuario rimane aperto, affollato di pellegrini che vi accorrono tutta la notte. Il giro dell’altare lo si fa in ginocchio. Tante soprattutto le donne, avvolte negli scialli e con il capo coperto. Il giorno seguente, si susseguono altre celebrazioni con prediche in rumeno, in ungherese e in ucraino.
La prima chiesetta in legno, intitolata alla Dormizione di Maria, fu costruita nel 1810 e consacrata nel 1826, grazie all’impegno di padre Jakub Bogdanowicz, che vi portò l’immagine della Madonna nera con Bambino (di tradizione medievale-bizantina), venerata a Czestochowa, in Polonia. L’icona – un bassorilievo in legno dorato e argentato – fu intronizzata con solennità sull’altare principale. Nel 1903, la vecchia chiesa fu demolita e sostituita, il 16 ottobre 1904 (anno giubilare), da una nuova. Nel 1996, per decreto del vescovo cattolico di Iasi, Petru Gherghel, è stata ufficialmente dichiarata santuario della diocesi; il 14 marzo 2000 è stata elevata, da Giovanni Paolo II, al rango di Basilica minore.
Ma, per andare alle origini del culto cattolico a Cacica, bisogna fare un salto indietro. Tra il 1780 e il 1791, venne scoperta e avviata in produzione una miniera di sale, che richiamava minatori e tecnici da diverse province dell’Impero asburgico. Da Bochnia, Wieliczka e Kalusz arrivarono i polacchi, per i quali fu realizzata, a una ventina di metri di profondità, all’interno della miniera (oggi in disuso), una chiesa dedicata a santa Barbara. Ogni mattina i minatori si fermavano a chiederle protezione, alla sera ripassavano per ringraziare.
Un’altra pacifica invasione di fedeli è quella che, ogni anno, il 15 agosto, raggiunge, dal nord della Transilvania, il santuario di Nicula, dedicato alla Madonna Assunta. Ortodossi e greco-cattolici insieme, vengono a piedi, portando, cucito sulla maglia, il “segno della Madre Santa”: un libretto con il racconto della passione di Cristo e le sofferenze di Maria. I pellegrini vegliano tutta la notte, pregano, accendono candele. La fama del santuario – la cui costruzione si colloca nel 1552 – è legata all’immagine miracolosa della Vergine Maria, ricordata da un’icona del 1681, dipinta su legno, sembra da un prete, Luca di Iclodu Mare. Il 15 febbraio 1566, i militari del reggimento Vasas del principe degli Hohenzollem, erano accampati nei dintorni di Nicula. Frequentavano spesso la chiesa e, durante una di queste visite, videro l’icona piangere. Il capitano Vanner Jàanos e il vicecapitano Lapatzek asciugarono più volta con la tela le lacrime versate.
Il miracolo continuò per tre settimane, senza che le indagini volute dal conte Sigismund Kornis dessero ragione del fenomeno. Copia del verbale redatto il 28 marzo 1699, fu trasmessa a Vienna, al conte Leopold Kolonics, cardinale e arcivescovo di Esztergom (nell’Ungheria settentrionale), per chiedergli di condurre un’inchiesta ufficiale e autorizzare la devozione alla Madre di Dio. La documentazione relativa alla raccolta delle testimonianze è oggi conservata negli archivi di Cluj (a circa 500 chilometri a nord-ovest da Bucarest, nella regione della Transilvania). L’evento miracoloso trasformò il posto in meta di grandi pellegrinaggi, in occasione dei quali i fedeli desideravano ottenere un’immagine della Madonna da portarsi a casa. Nel 1928, Pio XI dette a questo luogo lo status di Santuario mariano. Il miracolo delle lacrime ha dato il via, prima a Nicula e poi in tutta la Transilvania, alla produzione di icone dipinte su vetro. Inizialmente furono i contadini, dopo il lavoro nei campi o nella stagione fredda, a dedicarsi a quest’arte, spesso coinvolgendo tutta la famiglia; chi preparava i colori (bianco, nero, ocra, nero…), chi tracciava il disegno, chi realizzava le cornici. Poi, la produzione proseguì su vasta scala.
Oggi, in ogni casa, se ne trovano ornate di stoffe più o meno preziose, circondate da basilico e illuminate di giorno e di notte da una lampada. Davanti all’icona della Madonna con Bambino, o colta nei diversi momenti della sua vita, ogni madre si inginocchia con i suoi bambini per recitare insieme le preghiere; poi tutti baciano l’immagine e spandono incenso. Così si tiene viva la pietà mariana.
La presenza di un monastero ricorda che a Nicula è vissuta anche una delle più vecchie comunità monacali della Romania. Oggi il santuario è proprietà della comunità ortodossa. E’ una delle chiese confiscate negli anni del comunismo, di cui oggi i greco-cattolici chiedono la restituzione. “La restituzione dei beni ai cattolici è una pratica di giustizia, che va risolta con carità. Non ci può essere carità senza giustizia. Gli ortodossi hanno fatto alcuni passi, ma altri ne devono fare”, dice il vescovo Petru Gherghel. La confisca dei beni cattolici risale al 1948, quando il regime comunista dichiarò “fuorilegge” la Chiesa greco-cattolica. Vescovi e sacerdoti vennero imprigionati e i beni (circa 2.500 tra chiese e monasteri) furono consegnati alla Chiesa ortodossa e ad altre realtà statali. Dopo la caduta del comunismo, con decreto legge datato 24 aprile 1990, la Chiesa greco-cattolica è stata reintegrata nei suoi diritti, ma la strada per ottenere la restituzione di quanto è stato sottratto è ancora lunga. “Prima dell’avvento del regime comunista – continua il vescovo -, abbiamo vissuto periodi di grande rispetto gli uni per gli altri. Poi, dopo la liberazione, il gruppo maggioritario (gli ortodossi sono l’87 per cento) ha finito con il prevalere sull’altro (i greco-cattolici sono l’1,3 per cento).
Monsignor Gherghel spiega che “negli anni passati, soprattutto con l’attuale patriarca Daniel Ciobotea, abbiamo collaborato molto: nella preghiera, nel settore sociale, aprendo assieme delle scuole. Adesso, però, è un momento di stasi. Ma Europa (la Romania vi è entrata nel 2007) significa etnie, culture, tradizioni, religioni diverse. L’incontro ci dev’essere, e può avvenire nel sociale, nella preghiera e nell’aiuto vicendevole. L’ecumenismo, come lo vivete voi in Italia, è diverso da come lo viviamo noi. Perché noi lo viviamo in casa, perciò è più difficile. Noi dobbiamo mediare continuamente. Chiediamo agli ortodossi di essere aperti con noi, come noi lo siamo con loro. In Italia loro hanno tanti luoghi di culto. Questo è bene. Serve a far loro incontrare Dio nelle migliori condizioni”.
Dalla Madre di Gesù si va in pellegrinaggio, non solo ad agosto, ma anche a Pentecoste, l’8 ottobre (Madonna del Rosario) e l’8 dicembre (Festa dell’Immacolata Concezione). Ogni anno, la veglia di Pentecoste, migliaia di fedeli romano-cattolici di lingua ungherese, provenienti da ogni dove, raggiungono a piedi il santuario francescano, dedicato a Maria, di Sumuleu-Ciuc, nella Transilvania orientale, per partecipare alla tradizionale veglia. Lo scorso giugno erano almeno 120mila a pregare per la pace nel mondo, per la salute, perché Dio perdoni i peccati degli uomini e per una vita migliore. Hanno percorso, in processione, con bandiere ornate da rami di betulla e con il laborum, la collina di Sumuleu-Piccolo, seguendo il tracciato chiamato Via Crucis, o collina del Golgota, segnato da quattordici croci, che simboleggiavano le varie fermate del Salvatore nel cammino verso il supplizio.
Il laborum è il vessillo che, dai tempi di Costantino il Grande (306-337 d.C.), simboleggia la lotta e la vittoria della fede cattolica; in particolare, a Sumuleu, il riferimento è al 1567, quando il principe di Transilvania, Giovanni II Sigismondo Zapolya, cercò di convertire il principato cattolico di Ciuc, Gheorgheni e Casin, al protestantesimo. I fedeli, guidati dal prete Istvan di Joseni, affrontarono l’armata e, il sabato di Pentecoste, vinsero, sostenuti dalla preghiera di vecchi, donne e bambini, riuniti in chiesa. Quest’anno, ad aprire la processione, portando il labaro, che pesa circa 25 chili, è stato un orgoglioso Kovacs Szabolcs, migliore alunno del Collegio romano cattolico “Segito Maria” di Miercurea Ciuc. Come da tradizione, davanti alla cappella del Salvatore, la processione si è fermata per cantare “Tutta bella sei”, o Maria”, e poi ha continuato il cammino fino al santuario, dove la messa è stata officiata dal vescovo di Szekesfeherbar (Ungheria), Antal Spànyi e dall’arcivescovo romano-cattolico di Alba Iulia, Jakubinyii Giorgy.
Nel santuario, le cui origini risalgono al Medioevo, vi è, sull’altare principale, una statua lignea della Madonna con in braccio il Bambino, capolavoro dell’arte religiosa del XVI secolo. Nella finestra in vetro sopra l’ingresso principale, si possono vedere i monogrammi di Gesù e Maria e il segno dei Francescani, costruttori del santuario, elevato da papa Pio XII a Basilica minore. Dal XV secolo, per volere di papa Eugenio IV, che diceva: “Un gran numero di fedeli è abituato a radunarsi qui per pregare la Santa Maria”, questo è il luogo del più grande pellegrinaggio cattolico del centro e del sud-est Europa. Non c’è posto migliore di Maramures (in romeno, Judetul Maramures) per ritrovare tradizioni ancestrali in un ambiente dove il tempo sembra essersi fermato. Dove la vita in campagna segue i ritmi che aveva nel Medioevo e dove probabilmente si usano ancora gli stessi strumenti agricoli di allora. D’altra parte, la regione, separata dalla Transilvania, da una selvaggia cerchia di monti, è rimasta quasi completamente isolata nel corso del XX secolo. In particolare, nei villaggi di Bardana, Budesti, Desesti e Iued, la cultura contadina unisce alla musica tradizionale, il folk, e alle feste con costumi pittoreschi, anche l’antica fede, che ha la migliore espressione nelle tipiche chiese in legno, edificate tra il XVII e il XVIII secolo, frutto di contaminazioni tra le tradizioni religiose ortodosse e le influenze gotiche.
Edifici dai tetti aguzzi, con le guglie che si librano verso il paradiso, che a Pasqua si animano grazie alla processione di donne che vanno a recare offerte. Un’altra caratteristica di questa zona sono i portali di case e chiese, decorati con motivi che rappresentano stilizzati dischi solari, alberi della vita, croci, figure geometriche, tutti eccezionali esempi di arte rurale. In ogni villaggio c’è qualcosa per cui vale la pena fermarsi: a Surdesti, la più grande chiesa in legno del mondo; a Bardana, uno dei più interessanti e complessi monacali, anch’esso totalmente in legno; a Ieud, il più antico codice in lingua rumena, scoperto nella soffitta della chiesa. Ancora, meritano una visita i murales del 1794, della chiesa della benedetta Parascheva, a Poienile Izei, e i soffitti trilobati della chiesa di Plopis. Natura, tradizione, arte e religiosità si mescolano nella Bucovina che, assieme alla Transilvania, è lo scrigno culturale della Romania. Il suo fascino affonda le radici nel paesaggio, nel silenzio delle montagne e colline boscose (il nome Bucovina significa paese coperto da foreste di faggi), che custodiscono tesori dell’arte religiosa. Vi si trovano parecchi monasteri cristiano-ortodossi, edificati per lo più nel 1400-1500, sotto i principi moldavi Stefano il Grande, e suo figlio Petru rares, e oggi patrimonio dell’Unesco. Interessanti per la struttura architettonica e per la bellezza degli affreschi. Per educare la popolazione, per lo più analfabeta, le più note storie della Bibbia vennero rappresentate, come dei moderni fumetti, sulle pareti esterne. Cristo domina una folla di animali fantastici, simboli zodiacali, anime dannate, tombe che si scoperchiano, santi e profeti, arcangeli che soffiano le trombe usate dai contadini moldavi. I personaggi negativi, i dannati, hanno le sembianze e sono vestiti da turchi, all’epoca i maggiori nemici dei romeni e, ovviamente, del mondo cristiano.
Tra i monasteri più famosi, nella cittadina omonima, c’è Voronet, il “gioiello della Bucovina”, dedicato a san Giorgio, ed eretto dal principe Stefano il Grande nel 1488, in omaggio al suo consigliere, l’umile monaco Danili, che qui aveva una cappella in legno. E’ divenuto celebra tra gli amanti dell’arte, grazie a due caratteristiche della sua pittura: l’azzurro, realizzato con una formula ancora sconosciuta, chiamato “azzurro di Voronet”, e il magnifico Giudizio Universale, sviluppato su tutta la parete ovest. E’ il dipinto più famoso dell’arte moldava. Eseguito nel 1550, forse dal pittore Marcu, il ciclo di affreschi, per la sua bellezza, viene paragonato a quello di monumenti celebri, come la Cappella Sistina, o la Cappella degli Scrovegni di Padova.
Ciò che colpisce subito in Romania, è la rassegnazione, la gente si sente depredata delle aspettative, delusa perché il dopo Ceausescu non sembra molto diverso dal prima. Il passaggio dal regime comunista alla democrazia, non ha fatto altro che allargare la forbice tra chi è sempre più ricco e chi è sempre più povero. Gli stipendi rimangono da fame (in media, cento euro al mese), mentre i prezzi lievitano. La conseguenza è che la popolazione cerca lavoro all’estero (4 milioni di persone, di cui un milione e 300mila circa, in Italia), spesso si sfasciano le famiglie e ne fanno le spese i figli, lasciati ai nonni, o a parenti e amici.
Esiste un problema corruzione. Uffici pubblici, ospedali, scuole: “Tutto si compra e tutto si vende”, dice monsignor Anton Cosa, vescovo romano-cattolico di Chisinau, capitale della Moldavia: 280mila cattolici suddivisi in una trentina d paesi, su un totale di 4, 5 milioni di rumeni. “Dopo l’89 – racconta monsignor Cosa -, qui è sorta una piccola comunità di circa 500 cattolici, che aveva soltanto il permesso di celebrare la messa in una cappella dentro un’area del cimitero. Dopo gli anni ’90, siamo riusciti a organizzare parrocchie e a trovare sacerdoti, che sono diventati punti di riferimento per la comunità cattolica. Poi, le parrocchie in Moldavia, sono diventate 18. Nel frattempo, la prima parrocchia, Chisinau, è diventata amministrazione apostolica, poi, il 27 ottobre 2001, con la bolla “Sollicitus de spirituali” di Giovanni Paolo II, è stata elevata a diocesi. Oggi ha 33 sacerdoti, di cui alcuni moldavi; gli altri sono fidei donum, oppure persone consacrate appartenenti a quattro ordini religiosi: Salesiani, Francescani, Dehoniani, Verbiti”.
C’è un problema di sviluppo economico. La produzione agricola potrebbe sfamare 250 milioni di persone. Invece l’agricoltura – con un potenziale di 10 milioni di ettari di terreno coltivabile – praticamente non esiste. I campi sono lasciati incolti. Mancano gli investimenti. Dopo un primo momento euforico, quando le aziende italiane si sono impiantate, attirate dalla possibilità di avere lavoratori a costo quasi zero, oggi i meccanismi burocratici rallentano ogni nuova iniziativa imprenditoriale.
Con una situazione così, non è facile trovare chi sorride. Non diresti mai che in questo contesto, al confine con l’Ucraina, a pochi chilometri dalla città di Sighetu Marmatiei, si trova il cimitero di Sapanta (Cimitirul vesel, Cimitero allegro). Era il 1935 quando l’artista locale Stan Patras iniziò a decorare le croci per le tombe dei suoi compaesani con coloratissime scene che illustrano il mondo popolare. Croci dipinte, epitaffi satirici descrivono vizi e virtù del defunto. Se la morte non è la fine, ma un inizio, qui è un tripudio di speranza.
© 2011 Romina Gobbo – Foto Fabio Zoratti
pubblicato su Jesus n. 08 – agosto 2011