La tenacia delle donne afghane – The tenacity of Afghan women – ثبات المرأة الأفغانية

Sono stata lo scorso gennaio a visitare il carcere femminile di Herat, in Afghanistan, ricostruito dal Prt, Provincial Construction team italiano, collegato al nostro Esercito. Una bella struttura, non c’è che dire, quasi una casa di accoglienza per 136 detenute, che qui scontano una pena che va dai 5 ai 20 anni. Intanto, imparano a leggere, alcune a cucire, altre l’arte delle perline, attività a loro normalmente negate. Eppure, qualcosa mi stride. Chiedo perché sono in carcere. L’interprete parla di uxoricidio, adulterio, molti abbandoni del tetto coniugale. Dunque, andiamo con ordine.

L’uxoricidio è un reato oggettivamente riconosciuto. E, passi, anche se bisognerebbe chiedersi che cosa porta a tale esasperazione. L’adulterio già mi dà da pensare; in Italia è stato cancellato dalla Corte Costituzionale nel 1968 (non proprio tanti anni fa, ma tant’è). Ma tanti abbandoni del tetto coniugale mi solleticano il perché. E così viene fuori che spesso il marito non è propriamente un gentleman, per usare un eufemismo. Insomma, chi dovrebbe essere tutelata, paga con la reclusione.


Ho deciso di andare a fondo. I dati sono agghiaccianti e confermano la classifica stilata dal quotidiano inglese “The Indipendent”, nella quale l’Afghanistan risulta essere il posto peggiore – e anche il più pericoloso – per le donne. L’aspettativa di vita è 44 anni. Una donna ha almeno 200 volte più probabilità di morire durante il parto che per effetto di bombe o proiettili. Infatti, solo il 14 per cento dei parti è assistito da personale competente. Il 60 per cento delle ragazze si sposa al di sotto dell’età legale di 16 anni; nel 60-80 per cento dei casi, si tratta di matrimoni forzati. La violenza fisica, psicologica e sessuale, colpisce l’87 per cento delle donne, all’interno delle mura domestiche. Da questo punto di vista, neppure l’Italia rappresenta un esempio virtuoso. L’accesso alle cure mediche è quasi sempre negato, troppo costoso, non ne vale la pena. Solo il 12 per cento sa leggere e scrivere; nelle zone rurali, l’analfabetismo raggiunge il 90 per cento. E, girando per le strade, ci si accorge che il burqa è la norma. «La situazione delle donne afghane è andata peggiorando negli ultimi anni»: ha detto nei giorni scorsi a Milano Samia Walid, attivista dell’organizzazione afghana Rawa (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan), organismo che da trent’anni lotta per la libertà, la democrazia e la giustizia sociale. E le sue parole suonano profetiche alla luce del recente “codice di comportamento” emanato dal consiglio dei religiosi (Ulema) e approvato dal presidente Karzai, che incoraggia la segregazione di genere, facendo fare al Paese un passo indietro sul tema dei diritti femminili. Tutto perduto, dunque? La bella notizia è che le donne non si rassegneranno, continueranno a combattere. Non c’è solo Rawa, ci sono anche Hawca (Humanitarian assistance of the Women and Children of Afghanistan), la cui direttrice, Selay Ghaffar, ha le idee ben chiare: «Noi vogliamo formare una generazione di donne forti, consapevoli dei propri diritti, determinate a conquistarli e a farli rispettare» e Opawc (Organization for Promoting Afghan Women’s Capabilities), che opera contemporaneamente su tre fronti: educazione, assistenza sanitaria e addestramento al lavoro artigianale. E, a dar loro man forte dall’Italia, c’è il Cisda, Coordinamento italiano sostegno donne afghane. «Da tutto questo impegno, nascerà la nuova classe dirigente», parola di Manizha, agguerrita diciannovenne, matricola all’università di giurisprudenza di Kabul.

© 2012 Testo e foto Romina Gobbo

Pubblicato su Sinetica White Circus n. 4 Maggio 2012

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