«Tu, maschio, rifletti su te stesso? Sulla tua identità? Ti metti in discussione? Vuoi, o no, capirti in profondità? Il viaggio più difficile che nessuno vuole fare, è quello dentro sé stessi, di avvicinamento alla nostra identità, dove ritrovo il mio corpo, a partire dalle sensazioni, me le guardo, me le sento, lascio che emergano. Maschio, fai questo viaggio. Non temere le tue paure, le tue debolezze, recupera la dimensione della bellezza. Quel rispetto che chiedi a te stesso, lo avrai anche per gli altri, anche per la donna, che potrai vedere finalmente in maniera diversa, non solo come un corpo!»
Il grido di suor Rita Giaretta non può lasciare indifferenti. È come uno scossone, mi prende dentro e mi riesce difficile abbassare lo sguardo per continuare a scrivere. L’intensità dei suoi occhi mi ipnotizza, mentre lei, mingherlina, ma di una forza e di una determinazione senza pari, mi dà la miglior lezione di vita, quella che viene dalla strada, da quella strada alla quale ha strappato molte ragazze, per dire loro che un’altra vita è possibile. Dal 1997, suor Rita è forza e anima di Casa Rut, la casa di accoglienza aperta a Caserta dalle suore Orsoline di Breganze.
«Vedevamo tutte queste ragazze sulle strade e ci siamo chieste, ma a loro chi pensa? Cosa vogliamo fare? Ci siamo sentite provocate dal vangelo della vita. Siamo andate sulla strada. In una mano un fiore, nell’altra, la croce. Superato il timore iniziale e un po’ di sconcerto, sono nati legami di amicizia e la richiesta di tornare. Siamo tornate. Le abbiamo ascoltate. Ci raccontavano storie di sfruttamento, di una violenza inaudita: viaggi nel deserto private della dignità, stupri, amiche ammazzate, e quanto di più aberrante si possa immaginare. Si facevano forza a vicenda dicendosi che in Italia avrebbero trovato un paradiso, qualcosa di sano, invece sono ripiombate nell’inferno. Abbiamo visto i segni delle torture, le cicatrici dei mozziconi di sigaretta spenti sulle braccia. E mai possibile che questo accada nella nostra bella Italia? Di nuovo ragazze ridotte in schiavitù. Guardata in faccia questa dura realtà, non è stato più possibile non mettersi in gioco».
Il risultato è più di 350 ragazze immigrate aiutate, per lo più nigeriane, ma anche sudamericane e dall’Est Europa, e 50 bambini nati. Ecco perché è possibile parlare di speranza anche in una realtà come Caserta, dove il disastro ambientale, l’illegalità diffusa e la mentalità camorristica, la fanno da padroni. «Abbiamo scelto di amare un territorio così fragile, così piegato, ma con grosse potenzialità di rinascita, anche per quanto riguarda la questione femminile – spiega suor Rita -. Accogliamo donne violate, abusate, annullate come esseri umani. Partiamo da qui per poi combattere una mentalità clientelare, che è diventata stile di vita, che ingabbia le persone e toglie spazi di autonomia e di pensiero. Sentiamo di avere una grande responsabilità. Siamo una forza libera, dettata dalla passione per questo territorio, che ormai ci è entrato dentro».
Mai subito pressioni?
«Certo, continuamente, ma è più forte la nostra determinazione. Siamo sempre all’erta anche quando ci promettono denaro pubblico, sappiamo quando e a chi dire no. I finanziamenti sono la linfa vitale per i nostri progetti, ma, se accettarli significa perdere la nostra libertà, allora bisogna dire no. È capitato di recente con la Regione: abbiamo rifiutato fondi, perché non c’era chiarezza, non c’era trasparenza. Ma non abbiamo rinunciato senza dire una parola, abbiamo reso pubblico il motivo della nostra rinuncia. La denuncia è necessaria, ma dev’essere costruttiva, serve a cercar di trovare nelle istituzioni, quel po’ di positivo che c’è. Questo è un territorio dove devi osare la speranza quotidianamente (Osare la speranza è il titolo dell’ultimo libro di suor Giaretta, scritto con Sergio Tanzarella, ndr), sennò si resta schiacciati, dalla crisi, dai malanni della società. Ma è lì che dobbiamo testimoniare, a partire dal vangelo. Ma non possiamo farlo da sole; la nostra forza è fare rete con la società civile. Oggi la profezia non può venire dalle istituzioni, da nessun palazzo, ma deve nascere dalla base, dai più semplici, da chi vive la realtà, la patisce dentro e per amore alla vita, tenta di inventare altre strade. Siamo scomode, ma questo non ci deve frenare. Il tempo nostro è il tempo della resistenza, ma pensato come esistenza, per pensare nuovi modi di vita».
All’inizio centro di accoglienza, poi casa.
«Perché nella casa si riprende vita, fiato, calore, ci si sente persona. Ma anche il territorio dev’essere casa. Le istituzioni devono fare la loro parte: abbiamo coinvolto l’Asl per la parte medico-sanitaria e poi la questura e il Tribunale dei minori, per accelerare le pratiche di regolarizzazione: queste ragazze devono avere un percorso privilegiato per uscire dalla clandestinità, perché sono vittime. Se liberiamo le persone cadute nella rete della criminalità, facciamo un grande lavoro in favore della sicurezza. E vorrei che anche la Chiesa fosse casa. Vorrei una Chiesa più vicina agli aspetti umani, perché una spiritualità disincarnata dalle divisioni umane, crea ancora spaccature».
Poi c’è la questione dell’inserimento lavorativo.
«È la parte più difficile, ma è lì il grande salto di qualità. Oggi, con la crisi, è davvero dura. Perciò, abbiamo avviato un laboratorio di sartoria etnica, con l’obiettivo di far emergere la loro parte migliore, per far crescere in loro l’autostima, sennò rischiamo che si sentano sempre in colpa. Vendere il proprio corpo ti fa sentire negativa, sporca, brutta, non portatrice di dignità. Lavorano le loro stoffe, quelle africane portatrici di colori. Creando, tirano fuori il bello che c’è in loro. Questo laboratorio, nel 2004 si è trasformato nella cooperativa sociale “neWhope” (nuova speranza), che dà lavoro a quattro ragazze, formate con corsi di sartoria. Così capiscono che si può guadagnare denaro in maniera positiva, pulita, imparano che ci sono degli orari che vanno rispettati, sentono l’importanza di essere parte di una piccola catena di montaggio. I nostri prodotti non si comprano per scopo umanitario, ma perché sono belli, di qualità. La cooperativa è un’impresa a tutti gli effetti, che ha puntato sulla legalità: quattro stipendi regolari, un affitto da pagare, le spese per il materiale da comprare… Per dire che c’è un’altra logica, che non esiste solo il profitto, ma c’è una legge del mercato che permette di lavorare in solidarietà e condivisione. Oggi è questa la sfida».
© 2012 Romina Gobbo
pubblicato su “Perché avete paura? La speranza dalle Scritture” – inserto allegato alla Voce dei Berici del 20 maggio 2012