Maddalena Crippa, attrice con l’anima errante

È un fiume in piena Maddalena Crippa, quando si racconta. Basta darle un “la” e lei si apre. Ma non usa mai toni autoreferenziali. In primo piano c’è sempre il rispetto che questa raffinata attrice brianzola nutre per il personaggio a cui, di volta in volta, dà anima. È in occasione della messa in scena di Anima errante (piéce di Roberto Cavosi, per la regia di Carmelo Rifici, che ripercorre la strage di Seveso), al teatro Menotti di Milano, dal 10 al 27 gennaio 2013, che la contatto per una chiacchierata. Più afferma – e lo ripete – che non crede, e più spicca in lei il suo lato umano, quasi “religioso”.

«Sara, la protagonista di Anima errante è la ragione per cui ho scelto di interpretare questo testo. Anche se è molto lontana da me – io non ho il dono della fede -, la ritengo un personaggio umanamente interessante, perché non si lascia abbattere da questo destino che le piomba addosso in maniera così violenta, questo primo disastro ecologico (a cui poi ne sono seguiti molti altri), che la sradica dalla sua casa. Sara non si lascia schiacciare dalla paura, vuole attraversare completamente questa disgrazia, vuole vivere, conservare i ricordi. Mentre il marito cede, lei non accetta di essere spenta. Perciò fa questo viaggio in solitudine, si interroga, è capace di ascoltare quello che il cuore le dice. Si sente sola, abbandonata, disperata, ma non si rassegna. Tutto questo mi riguarda: ognuno di noi nella vita è chiamato a confrontarsi col dolore, col fallimento. Quindi capisco questo suo rivolgersi a Maria, questo suo parlarle, pretendendo che le indichi una via. Rispetto la fede altrui. C’è, poi, un aspetto che mi coinvolge come donna. Non ho avuto figli, ma non per scelta. È un nodo non risolto della mia vita, perciò mi tocca questa donna che a tutti i costi vuole suo figlio. Questo testo mi affascina, perché mette sul tappeto due tematiche molto contemporanee: la responsabilità civile di questo disastro, di chi compie azioni fuorilegge che toccano la vita delle persone, e l’affermazione di un bisogno spirituale, oggi estremamente necessario, anche per me. In questo mondo, dove le persone vengono sempre più spente dal sistema consumistico e superficiale che ci circonda, Sara umanamente è proprio calda. Sono felice di darle voce, vita e corpo».

Maddalena Crippa
Maddalena Crippa

È più facile il vivere per una persona che ha fede?

«Chi ha fede, deve continuamente alimentarla per tenerla in vita; come chi non ne ha, deve tenere in vita la positività del vivere, la speranza di andare avanti, di migliorare, la tensione verso il bene, l’amore. Io credo nell’uomo. Ho passione per il mio lavoro, per il vivere. Se penso alla Madonna, penso a mia madre, che non c’è più. Nel bisogno, invoco lei. Non ho fede, ma riconosco il valore del sacro, il mistero. Perché uno nasce e poi deve morire? C’è qualcosa che l’uomo non arriva a comprendere, anche con tutta la ragione del mondo».

Lei continua ad avere fede nell’uomo, nonostante l’abbruttimento del mondo di oggi?

«Molta fede, perché sennò come fai a vivere? Il problema è che il male esiste, è sempre esistito. Bisogna porsi di fronte alle cose con comprensione, cercando di capire le regole per vivere in comunità. Noi siamo esseri sociali. Tentano di ridurci in solitudine, ma l’essere umano ha bisogno degli altri, è meglio con gli altri. Ho iniziato a fare questo mestiere – come quasi sempre succede – per voler essere qualcuno; poi, andando avanti, è diventato un cercare sempre di più di migliorare la mia attitudine a comunicare qualcosa. io sono un mezzo per far arrivare un testo e dei valori alla gente. Il teatro è forse oggi l’unico luogo dove si possono ancora sviluppare delle emozioni, dei sentimenti. C’è unità di luogo, di spazio e di tempo, non si è disturbati. Se la cosa è bella, qualcosa accade in te, ma non sei da solo, sei con altri. Per questo, è un momento non più ripetibile. Ogni volta, sei diversa tu che reciti, è diverso il pubblico che ascolta. C’è sempre una variabile estremamente viva, vitale e, quando funziona, è qualcosa che ti prende. Per esempio, ho interpretato I demoni di Dostoevskji, uno spettacolo di 12 ore. La maggior parte della gente, anche quella mai andata a teatro, è rimasta fino alla fine scoprendo un’altra dimensione, quella della condivisione, attraverso temi altissimi. È un’esperienza che ti ricentra anche come essere umano. E alla fine vorresti che non finisse più».

Il teatro di impegno può cambiare il mondo?

«Il teatro non può cambiare il mondo, ma è un nutrimento dell’anima, di quella cosa che oggi è sguarnita, non curata, non accarezzata. Quello che davvero servirebbe è che ognuno riuscisse a rendersi protagonista della propria vita. Il primo cambiamento deve avvenire in noi stessi, e la ricerca dev’essere continua. Più vai avanti e più cresce la consapevolezza del tuo limite. Ma non bisogna arrendersi. È interessante leggere i miracoli di Gesù anche come una ricerca di autonomia che Egli fa alla gente, a cui chiede di risvegliarsi, di alzarsi, di andare».

Quindi, il Vangelo l’ha letto?

«Chi non legge il Vangelo? Gesù è in assoluto la figura più rivoluzionaria della storia: niente a che vedere con il potere, che, per esempio, esercita la Chiesa oggi; solo che poco di quello che ha detto viene seguito. I miei punti di riferimento sono figure come Turoldo e don Milani, che hanno veramente messo in pratica l’insegnamento di Gesù. Sono affascinata e legata a personaggi del genere. Magari potessi fare una decima parte di quello che hanno fatto loro. Nel mio mestiere cerco di scegliere dei testi che hanno un senso. Non è facile essere controcorrente nel teatro, hai sicuramente più possibilità con Shakespeare. Ma le mie scelte sono determinate da ciò che mi emoziona, che mi riguarda, e poi lavoro sul personaggio che mi viene affidato, in modo da trasmettere al pubblico quello che io provo. Faccio Anima errante, contenta di farlo».

La politica italiana non è mai stata molto interessata a promuovere la cultura e l’arte…

«Siamo minacciati, vogliono farci fuori con i tagli, a noi teatranti. Questo Paese potrebbe vivere della sua cultura; abbiamo un patrimonio storico, artistico, architettonico, naturale meraviglioso, abbiamo sapienze incredibili. Io sono basita dalla cecità dei nostri governanti, tutti indistintamente. In Germania, la cancelliera Merkel va a vedere una prova, da sola, senza scorta e senza portavoce, perché è un’abitudine vera, è una passione frequentare il teatro. I politici italiani che ho visto a teatro in trent’anni di carriera si possono contare su una mano. Non ne capiscono il valore o forse non c’è questa cura per la persona che pensa con la propria testa. La persona che pensa non la puoi pilotare: invece, dalla scuola materna in poi, dovrebbe esserci questa tensione a far nascere ogni persona a sé stessa, per la sua autonomia, affinché possa intraprendere il suo viaggio nella vita con mezzi autonomi, con capacità di scelta. Ognuno ha responsabilità personali, ognuno deve fare quello che può, nel proprio settore».

Lei è stata Lady Macbeth, ma ha anche partecipato a una Fedra ed è stata Medea: personaggi “estremi”, ma che funzionano sempre.

«Quando fai la tragedia, hai in mano la nascita del teatro. I personaggi come Medea, Fedra, Antigone funzionano sempre perché le tragedie sono scritte dai greci e loro sapevano arrivare al centro di un problema. Medea, ormai un archetipo, è soprattutto un testo sulla famiglia, sui rapporti umani. Lei non è solo la straniera, è la donna, la moglie tradita (a quante è successo!), la madre a cui i figli vengono strappati; è vero, lei li uccide, ma è come se uccidesse sé stessa, è una figura di una solitudine totale. Le tragedie toccano tutte le corde, tantissime sfumature e riverberi dell’animo umano, che risuonano oggi come allora. Se queste vicende antiche vengono messe in scena nella maniera giusta, inevitabilmente hanno ripercussioni sul pubblico. È sorprendente come a tuttt’oggi noi siamo uguali agli uomini e donne del V secolo a.C., nel senso che proviamo gli stessi sentimenti, le stesse emozioni, la rabbia, la gioia, la mancanza, la perdita, il fallimento, l’invidia, la gelosia, il rancore, la vendetta. Tutto questo ci abita e prima o poi nella vita ci tocca».

Cosa ne pensa di questa escalation di donne ammazzate per mano soprattutto di ex mariti, fidanzati, comunque uomini della cerchia familiare?

«Questi omicidi sono qualcosa di veramente grave. Io che non sono madre, mi domando: ma le madri italiane cosa insegnano a questi figli maschi? La responsabilità è ovviamente di chi commette il gesto criminale, ma le madri hanno nelle mani l’educazione dei figli. Cosa facciamo, o meglio non facciamo, per insegnare loro il rispetto dovuto a una donna? Come società dobbiamo chiederci dove stiamo andando. C’è questa esibizione eccessiva del corpo femminile, veicolata sotto un’offerta sessuale che nulla ha a che vedere con la donna. E poi mi chiedo anche per quale motivo noi donne non riusciamo a essere rappresentate come dovremmo: la colpa è anche nostra, forse dobbiamo risvegliarci e pretendere un modo diverso di essere nel mondo, di essere rispettate, amate. La maggior parte di chi offende, maltratta, uccide, sono mariti; quanta strada c’è ancora da fare come comunità».

Ha ancora paura quando sale su un palcoscenico?

«La paura c’è sempre, ma è condizione necessaria. Per me quello è il sacro. Stare sul palcoscenico non è cosa semplice. È proprio bello, è meraviglioso, però costa fatica, concentrazione, e, sì, anche paura, perché ogni volta è un salto nel vuoto, sei lì, “nuda”, davanti a un pubblico sconosciuto che si aspetta molto da te, con tutta la tua bravura, la tua competenza, la tua capacità di trasmettere emozioni. Io non ripeto niente, mi metto in gioco, consapevole che posso anche non piacere. Non recito una parte preconfezionata, mi metto nella condizione di provare qualcosa, perché arrivi agli altri. Proprio perché siamo umani, si può anche fallire. C’è un esporsi, c’è un essere al servizio di un autore e del personaggio che si interpreta. Per cui io voglio che vengano fuori loro, attraverso di me, attraverso il mio cuore, il mio sentimento, le mie viscere».

© 2013 – Romina Gobbo

Pubblicato su Jesus – gennaio 2013

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