
Padre Pierbattista Pizzaballa
«Se il Papa con il suo gesto ha lasciato tutto il mondo sconcertato, in Medio Oriente lo sconcerto è stato ancora maggiore, soprattutto fra gli ortodossi». Padre Pierbattista Pizzaballa, francescano, dal 2004 Custode di Terra Santa, riassume così le reazioni a Gerusalemme alla notizia delle dimissioni di Benedetto XVI. «Nel mondo cristiano orientale – spiega – l’istituto delle dimissioni non è contemplato, il patriarcato è a vita. Perciò questo atto in un primo momento ha suscitato perplessità, ma anche curiosità; i mass media locali ci venivano a cercare per comprendere meglio il significato, la portata, il futuro… Poi, però, tutti si sono resi conto della grandezza di questa scelta. Perciò, la reazione successiva è stata di rispetto e di grande ammirazione».
Il Papa ha dimostrato sempre grande attenzione per i cristiani del Medio Oriente. Avete sentito forte questa vicinanza?
«Benedetto XVI ci è sempre stato molto vicino, spiritualmente, con le sue parole – non dimentichiamo l’Esortazione apostolica post-sinodale, frutto del Sinodo sul Medio Oriente del 2010 -, ma anche con il sostegno concreto, con le offerte. Questa vicinanza è stata poi sancita dalla sua recente visita in Libano. Personalmente, l’ho incontrato diverse volte, sia in Terra Santa, che a Roma. Ricordo un uomo semplice, gioviale, dalla memoria molto fresca, cosciente dell’importanza che la Terra Santa ha per la vita della Chiesa universale. Resta un grande amico che continuerà a pregare e a ricordarsi di noi».
Tra i nomi che si fanno rispetto al possibile successore c’è anche quello del cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese orientali. Pensa che sarebbe un’opportunità in più per i cristiani di Terra Santa?
«Non spetta a me dirlo. Ma una cosa è certa: cioè che il cardinale Leonardo Sandri, proprio in virtù del suo ruolo, conosce le dinamiche interne, la storia, le prospettive delle Chiese del Medio Oriente come pochi altri».
Come stanno in questo momento i cristiani di Terra Santa?
«Direi bene, rispetto ad altri periodi storici e ad altri Paesi, come la Siria, l’Egitto. Dopo di che, bisogna capire di chi stiamo parlando. I cristiani di Israele hanno la piena cittadinanza, perciò hanno meno problemi economici e sociali. E’ più un problema di identità: vivono una sorta di assimilazione culturale da parte della maggioranza ebraica. In Cisgiordania, una realtà economicamente molto povera, il cristiano, come il musulmano, ha il problema della casa, del lavoro, dell’ospedale. A Gaza i cristiani sono pochissimi, 1.000-1.500 su un milione e mezzo di musulmani, quindi sono praticamente insignificanti».
Come va il dialogo tra il 2 per cento cristiano e il 98 per cento che cristiano non è?
«In Terra Santa il dialogo nasce dal vivere insieme, non è un dialogo basato sui principi. Con l’Islam passa soprattutto attraverso le nostre scuole, frequentate anche dai musulmani; con gli ebrei, invece, è più sul piano culturale. Non è invece possibile il cosiddetto “trialogo” tra ebrei, musulmani e cristiani, perché subentra la questione politica. Per un cristiano, ma anche per un musulmano, di Betlemme, Israele è occupazione, check point e muro».
Qual è il senso dello stare in Terra Santa come cristiani?
«Innanzitutto, stare lì non è scontato, e questo è molto difficile, ma anche molto bello, perché ogni giorno sei chiamato a dare ragione della speranza. Il cristiano deve sentire forte l’attaccamento a quelle radici, a quei luoghi, a quell’identità. E poi bisogna essere testimoni, che non significa solo fare la processione al Santo Sepolcro, ma anche ricordarsi cosa è il Santo Sepolcro: il luogo della misura e dell’amore di Dio. Gesù sulla croce ha perdonato. Il cristiano che sta lì e che deve portare la croce, deve anche saper portare quella testimonianza».
© 2013 – Romina Gobbo
Pubblicato su Famiglia Cristiana n. 8 – 24 febbraio 2013