Sua Eccellenza il cardinale…; l’illustrissimo Reverendo… E poi commendatore, vescovo, ausiliare, bla, bla, bla. Se il giornalista usasse ancora le cartelle, 60 battute basterebbero a malapena per le qualifiche del prelato di turno.
“No all’ecclesiale che fa rima con clericale”. E non è uno scioglilingua. E’ l’errore in cui buona parte dei giornalisti incorre – qualcuno per ignoranza, qualcun altro per malizia, qualcun altro ancora per una precisa scelta editoriale – quando si trova a trattare notizie legate al mondo della Chiesa.
“Il clericalismo uccide l’informazione ecclesiale – spiega Umberto Folena, caporedattore del quotidiano Avvenire, che sarà a Vicenza, ospite del settimanale diocesano La Voce dei Berici, venerdì 6 dicembre, nell’ambito degli incontri di formazione per i collaboratori della testata -. Clericalismo significa che l’informazione ecclesiale si riduce a quella curiale, ovvero a riportare estratti di documenti usciti dagli uffici pastorali, scritti in un linguaggio ossequioso, perché più attento agli equilibri, che non alla comprensione da parte dei lettori. Ma le notizie di Chiesa non sono diverse dalle altre. Perciò, lo stile dev’essere sobrio ed essenziale. Alcuni nostri collaboratori – continua Folena – impiegano due righe solo per descrivere la qualifica del personaggio di cui vogliono parlare. Significa che ci si preoccupa più che altro di compiacere la persona di cui si scrive”.
Insomma, quello stile che il card. Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio della cultura, ha definito “mellifluo, segnato da retorica, enfasi, tonalità ieratica”.
Che cosa, invece, si deve fare?
“Bisogna riuscire a dar voce alla vita della comunità ecclesiale, diocesana e parrocchiale. Cosa difficile, da ambedue le parti. Ci sono resistenze da parte nostra; fatichiamo ad andare in cerca delle notizie, a vedere che cosa fanno le parrocchie, a ricercare le iniziative dei fedeli, e ce ne sono tante: l’anziano che compie cent’anni e racconta della sua prima comunione, quello che faceva l’arrotino, ricordo di un tempo che fu, la cena al buio organizzata dai giovanissimi per mettersi dalla parte di chi non vede, la veglia ecumenica…, tanto per fare qualche esempio. Invece stiamo per lo più ad aspettare che siano i protagonisti delle notizie a farsi avanti, a venire da noi. Ma non tocca a loro; è la nostra professione”.
In più, c’è la ritrosia delle persone a raccontarsi.
“Specialmente per quanto riguarda persone che appartengono a movimenti e associazioni laicali, non vogliono che si parli di loro, se negano, addirittura ti dicono “no, perché sono umile”, per atto di contrizione. Non sentono l’esigenza di far circolare le iniziative, percepiscono solo la loro appartenenza al movimento, ma non alla comunità ecclesiale intesa in senso più ampio. Fatte salve le difficoltà, l’informazione cosiddetta religiosa così come quella cosiddetta ‘generalista’, deve solo raccontare quello che le persone pensano, dicono e fanno. A me piacerebbe che un settimanale diocesano, trovato per caso da un non cattolico o da uno che ha pregiudizi nei confronti della stampa di ispirazione cattolica, potesse leggerlo, capirlo ed apprezzarlo”.
Certo che tradurre in linguaggio semplice i documenti di Chiesa è cosa piuttosto ardua.
“Non è facile, ma neppure impossibile. L’obiettivo, che non va mai perso di vista, è sempre la comprensione del lettore. Se chi legge non fa fatica, questo provoca simpatia nei confronti della comunicazione e di chi la fa”.
Come la mettiamo con le questioni ‘spinose’? L’Imu, per esempio (o Iuc come si chiama oggi), con tutta la polemica legata ai beni immobili di proprietà religiosa.
“La parola d’ordine è: massima trasparenza. Parroci, religiosi/e, associazioni di volontariato… dovrebbero farsi dare dal proprio commercialista le ricevute che attestano il pagamento della tassa sugli immobili, ed esporle in bacheca. Così tutti le possono vedere. Poi, se c’è chi ha fatto il furbo e non ha pagato, non lo dobbiamo certo nascondere. La stampa cattolica (io preferisco dire di ispirazione cattolica) non ha il compito di coprire eventuali omissioni, semmai di portarle allo scoperto”.
E se si tratta di pedofilia?
“Qui il tema è delicato, ma non quando riguarda un prete, è delicato sempre, perché c’è di mezzo un minore (o più di uno). Dopo di che, la notizia va data, sempre nell’essenzialità, senza particolari morbosi. Che è lo stile che Avvenire ha adottato per tutte le notizie di cronaca nera. D’altra parte, non dare la notizia darebbe adito a un ventaglio di interpretazioni che va da chi pensa che ci siano connivenze a chi ritiene che, in quanto legati alla Chiesa, non abbiamo alcuno spazio di autonomia. Mi auguro che una curia non si aspetti che il settimanale diocesano sia compiacente”.
Il giornalista, meglio se è cattolico?
“Meglio sempre se è un bravo giornalista. Se, in più, è cattolico, dovrebbe portare nella professione i suoi principi, il rispetto totale della persona, per esempio. Tuttavia, se una persona viene assunta solo in base a quanto è devota, prevedo disastri. Probabilmente tutti noi, in qualche momento della carriera professionale, abbiamo subito torti. Ma questa è un’altra storia…”.
© 2013 – Romina Gobbo
pubblicato su La Voce dei Berici – domenica 1 dicembre 2013