La forza di una donna è la forza di tutte le donne del mondo

Ci sono tre momenti nell’anno, in cui si parla di donne, due “istituzionali” (8 marzo, Giornata internazionale della donna – 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne); e, dal 2013, c’è anche il 14 febbraio, la giornata tradizionalmente dedicata a san Valentino, è divenuta il simbolo di un amore vero, consapevole, senza violenza (V-Day), grazie all’iniziativa internazionale lanciata dalla scrittrice e attivista Eve Ensler: “One billion rising” (Un miliardo si solleva), un flash mob che ha portato uomini e donne di tutto il mondo a ballare contro la violenza. Lo scorso anno il focus era la piazza, quest’anno i luoghi dove ci si deve rivolgere per ottenere giustizia: tribunali, stazioni di polizia, ambasciate, consolati, uffici governativi… Perché la questione dell’impunibilità è tutt’altro che risolta. Un grido collettivo per rompere il silenzio. Sepolte, negate, cancellate, alterate, minimizzate: le storie di abusi si scontrano spesso con l’omertà. Basta vergogna! Basta colpa! Basta dolore! Basta umiliazione! In 169 Paesi si è detto basta: in Perù (basta molestie sessuali), in Nigeria (basta matrimoni precoci), in Guatemala (basta discriminazioni), in Bangladesh (basta alle leggi maschiliste), ma anche ad Haiti, dove il terremoto ha impattato pesantemente sulla quotidianità, e nel Regno Unito, nelle Filippine, in Birmania, negli States.

La violenza è trasversale, accomuna tutte le donne del mondo, di tutte le età, scolarizzazione e livello sociale. A volte noi la associamo alle musulmane. Pensiamo che l’Islam le escluda dalla vita pubblica, le releghi in una situazione subalterna all’uomo, le costringa ad indossare il velo. Ma non è la religione a essere maschilista, il vero problema sono l’arretratezza culturale e la dominazione patriarcale. E l’Italia non si chiami fuori, visto che il “delitto d’onore” è stato abrogato solo nel 1981. Non giudichiamo sempre con lo sguardo presuntuoso dell’Occidente, lasciamo che siano le stesse donne musulmane a essere protagoniste del loro cambiamento.

In questo articolo, ho volutamente evitato di fare la conta di abusi e maltrattamenti, perché a preoccuparsi troppo dei numeri, si rischia di dimenticare che dietro alle statistiche ci sono persone, e dietro ai casi, ci sono nomi, volti e vite.

Così, preferisco concludere con la speranza. Quella di Mala, 25 anni, che vive in uno slum di Chennai, capitale dello Stato del Tamil Nadu, nell’India meridionale. Non ha marito (spesso l’uomo si dimentica di essere padre), ma ha due figli. Non ha mai mollato. Guida un auto-rickshaw, in un Paese dove le donne al volante sono ancora una rarità. Lavora pesantemente, ma guadagna bene, dalle 700 alle 1.000 rupie (10-15 euro) al giorno, e presto potrà comprarsi il mezzo. Quella delle donne dei quartieri poveri del circondario di Nairobi, alle quali si deve il miracolo Kazuri, l’azienda kenyota che vende in tutto il mondo bracciali, collane e orecchini di ceramica, dipinti esclusivamente a mano. Nel 1975, quando è sorta, era una piccola organizzazione di commercio equo, oggi è un colosso che esporta il 70% della produzione. Quella delle donne che, non solo sostengono economicamente la famiglia, ma anche “combattono” per essa. Benvenuti in Cisgiordania, ad At Twani, villaggio circondato dagli insediamenti israeliani, salito agli onori delle cronache per aver intrapreso la strada della non-violenza. Kifah Adara, alla guida di un gruppo di donne ha fermato la costruzione dell’ennesimo muro, che avrebbe bloccato agli uomini le vie verso il mercato di Yalta, sancendo la fine delle attività commerciali. «Non abbiamo né la forza dell’esercito israeliano, né il potere delle tradizioni, che ci tengono confinate nei vecchi ruoli – mi disse Kifah, quando andai a trovarla -, ma noi sappiamo che la donna in piedi, a fianco di un’altra donna, in una linea di solidarietà, è una forza più potente di entrambi».

© 2014 Romina Gobbo

Pubblicato su Il punto di Creazzo – venerdì 7 marzo 2014

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