Per gli ebrei è il luogo legato alle figure fondamentali di riferimento: Abramo, David (che sul monte Sion fondò la sua capitale), Salomone, che diede al suo popolo il celebre Tempio. Per i cristiani, è la città in cui si è compiuto il mistero della passione, morte e risurrezione di Gesù. Per i musulmani, è la città dove sorge la Cupola della Roccia, il terzo santuario più importante di tutto il mondo islamico (dopo la Mecca e Medina), costruito dove, secondo la tradizione coranica, il profeta Muhammad sarebbe giunto, di notte, trasportato da Allah, e da lì asceso al cielo. A Gerusalemme, le tre religioni del ceppo biblico ritrovano le proprie origini e le proprie verità. E, proprio per questo, vi si è tanto combattuto (e si combatte), in nome di un’idea di fede che esclude le altre. Una città che è insieme, luogo di unione e luogo di divisione.
«In generale, si può dire che Gerusalemme è piena di religione e povera di fede». Parola di chi la “Città Santa per eccellenza” la conosce bene: il gesuita padre Francesco Rossi De Gasperis, ha vissuto oltre 35 anni in terra d’Israele. Appartenente alla comunità del Pontificio Istituto Biblico di Gerusalemme, padre De Gasperis si è molto interessato alle radici ebraiche della fede cristiana e alla teologia cristiana di Israele.
Come si esce da questa situazione di diffidenza reciproca?
«In realtà, non se ne esce. Io credo che molta importanza possono averla le religioni e le fedi che sono fuori da Gerusalemme. Chi sta fuori, ha il giusto e necessario distacco. Perché a Gerusalemme, ciascuna religione è asserragliata sulle proprie posizioni, il che non permette il dialogo. D’altra parte, tutto quello che nella storia è avvenuto, compresi i conflitti, le polemiche, le memorie dell’odio reciproco, le critiche…, lì è rimasto; tutto il passato è conservato. E questo a volte si vive anche nelle strade, gli oltranzisti che sputano addosso ai sacerdoti, o i bambini che vengono incitati a gettare sassi nei giardini delle suore. Le regole stabilite da secoli permettono che si viva insieme, ma non c’è nessuna comunicazione. Per questo sostengo che l’aiuto più facilmente può venire dall’esterno. A Gerusalemme ci sono alcuni incontri dialogici, ma servono più a rompere il ghiaccio tra persona e persona, tra famiglia e famiglia».
Eppure questa convivenza secolare esiste.
«È vero. Nonostante il mosaico di religioni, nonostante le varie confessioni siano attaccate alla loro diversità, si vive insieme da secoli, tranquillamente, ci si rispetta, anche al Santo Sepolcro, che ha ben cinque proprietari, vengono rispettati gli orari, la musica che suona, le varie liturgie, le devozioni degli uni e degli altri. Questo è qualcosa di eccezionale. C’è una comunione silenziosa, mai esplicitata dai discorsi, dai sentimenti espressi. Ma dove sta al mondo un luogo dove gente così diversa vive sempre insieme?»
Qualche passo avanti, qualche segno di speranza?
«Negli ultimi vent’anni, per opera soprattutto di San Giovanni Paolo II, qualcosa è cambiato. La sua visita in Terra Santa, nel 2000, con la preghiera al Muro Occidentale (più conosciuto come Muro del Pianto), è stata un’esplosione. Quando è arrivato, nessuno è andato a riceverlo, anzi, si viveva un clima di forte imbarazzo; quando è partito, la gente era entusiasta. Che il Papa metta una sua preghiera nel muro degli ebrei, vuol dire che sposa la spiritualità ebraica. Inserirsi nel modo di pregare ebraico da parte del capo della Chiesa cattolica, è sicuramente dirompente. Qualcosa si è rotto, ma siamo soltanto all’inizio, molti non si fidano delle posizioni della Chiesa cattolica nei confronti del giudaismo».
E con l’Islam, come va il dialogo?
«Con l’Islam il dialogo è ancora più difficile, perché Gerusalemme non è una città colta dal punto di vista islamico, asserragliata in una prassi fortemente tradizionalista, e con nessuna possibilità di apertura».
Papa Francesco come si pone?
«Papa Francesco sembra sulla linea di Giovanni Paolo II. Ha sviluppato la sua apertura con gli ebrei in Argentina. Ed è un Papa aperto, anche ai palestinesi. Staremo a vedere che cosa dirà».
E, dall’altra parte? Come vedono gli ebrei la Chiesa cattolica?
«Israele da sempre è un Paese che presta grande attenzione a quello che il Vaticano fa e dice: ricordano discorsi, dichiarazioni, documenti. Non ho mai visto un cattolico prendere così sul serio la Chiesa cattolica come fanno loro».
Tra i giovani la convivenza è più facile?
«I giovani, se sono integrati solo in una sezione del Paese, sono più radicati nella propria tradizione. Penso, per esempio, a chi è nato e vissuto nel kibbuz. Tuttavia, i giovani dimostrano sempre una tendenza ad incontrarsi più facile che tra gli adulti. Magari usando altri linguaggi: l’arte, la musica, il turismo. Tutto questo può aiutare la comunicazione. Penso alla West-Eastern Divan Orchestra (Il divario occidentale-orientale), fondata nel 1999 dal maestro d’orchestra israeliano, Daniel Baremboin, con lo scrittore palestinese Edward Said, per far suonare insieme giovani provenienti da Paesi in conflitto (Egitto, Siria, Libano, Palestina, Israele, Tunisia, Giordania). In questo caso, è la musica che si fa veicolo di pace».
© 2014 Romina Gobbo
pubblicato su La Voce dei Berici – speciale Pellegrini con Francesco – 25 maggio 2014