«Sono nato nel 1954 a San Polo di Piave (Treviso) e sono venuto qui da seminarista, poi, nel 1969, sono stato ordinato sacerdote. Ho avuto anche altre esperienze, ma la Terra Santa è nel mio cuore, sono naturalizzato qui, figlio di questa terra». Non si perde d’animo monsignor Giacinto Boulos Marcuzzo, vescovo a Nazareth, in Galilea, e vicario per Israele del Patriarcato Latino di Gerusalemme, dopo la lettera minatoria, spedita a lui, ma rivolta a tutti i cristiani, affinché “lascino Israele prima del 5 maggio”. Il 5 maggio è passato e il ‘Messia figlio di David’, così si è firmato il mittente, è stato arrestato. Ma, nei giorni successivi, molti luoghi di culto cristiani sono stati presi di mira. «La lettera dimostra che il livello di rischio è aumentato. Per questo abbiamo denunciato e facciamo sentire la nostra voce. È l’avvenire dell’intera società israeliana a essere in pericolo, perché il nostro vivere insieme è la base di tutto. Dobbiamo diffondere la cultura dell’accoglienza dell’altro».
Parliamo del pellegrinaggio del Papa: come vi ponete?
«C’è un po’ di dispiacere, perché non viene da noi. Sembra quasi un paradosso che Paolo VI ci fosse riuscito (anche lui, come Bergoglio, in Terra Santa si era fermato tre giorni, ndr). Nel 1964, sì, oggi, no, ma capiamo che ci sono supplementi che la vita moderna, pastorale e diplomatica impongono. Accogliamo il Santo Padre con spirito pastorale: questa è la nostra preoccupazione primaria, perché il pericolo è che questi pellegrinaggi abbiano troppo un aspetto ufficiale, protocollare, diplomatico. Il che va bene, perché il Papa è anche Capo di Stato, ma non vogliamo che sia l’aspetto dominante, per noi lui rimane, prima di tutto, il vicario di Cristo, il Papa della Chiesa cattolica romana, il rappresentante più qualificato della comunità. Che venga come pastore, per confermare i suoi fratelli e le sue sorelle nella fede. Poi, per riallacciare e rinforzare i legami di unità con gli altri cristiani: armeni, anglicani, ortodossi, l’altra comunità qui imponente».
E infatti viene a commemorare l’incontro di Paolo VI con Atenagora.
«L’aspetto ecumenico è fondamentale, perché serve a coronare tanti anni di sforzi nel processo di unità. Negli anni ’90, avevamo promosso un Sinodo pastorale locale di tutte le Chiese cattoliche di diversi riti, in collaborazione con tutti gli altri cristiani, per affrontare insieme le sfide future. La parola “insieme” era prioritaria e dominante. Il Sinodo si è concluso nel 2000, e ne è scaturito un piano pastorale di prim’ordine, che oggi è la nostra bussola. Il Papa, dunque, consacra quanto noi abbiamo fatto, e oggi i nostri rapporti con le altre comunità cristiane sono notevolmente migliorati, molte cose si fanno insieme. D’altra parte, è un’esigenza della storia. Siamo ridotti al 2% della popolazione; ogni comunità risulta essere lo 0,1 o 0,6%. È ridicolo essere divisi. Lo stesso Michael Sabbah, patriarca emerito di Gerusalemme dei Latini, che ci aveva avviati nel Sinodo, soleva ripetere: “O saremo insieme, o non saremo più”».
I musulmani come si pongono rispetto alla visita del Papa?
«In tutti i pellegrinaggi precedenti, c’è sempre stato un incontro interreligioso. Nel 2009, con Benedetto XVI, si è tenuto a Nazareth, sotto la Basilica dell’Annunciazione. È stato un momento molto bello. Nazareth, storicamente e biblicamente, è il luogo dell’unità, dell’incontro con l’altro. Qui Dio si è unito all’uomo, e viceversa. Qui si incontrano Antico e Nuovo Testamento. A noi dispiace che questa volta non ci sia l’incontro interreligioso, che crea unità e collaborazione. Perché abbiamo constatato che incontrare l’altro separatamente dalla terza parte, è sempre limitativo. Certo, quando si è in due, è più facile, in tre è più difficile, ma proprio quella difficoltà dobbiamo superare, quella è la nostra sfida. Bisogna incontrarsi, parlarsi, ed essere capaci di andare avanti. Incontrarsi in 3, o 4, è difficile, ma è più vero, più fruttuoso, più produttivo».
In Terra Santa la politica non può essere scissa dalla vita quotidiana. Questa visita del Papa potrà contribuire alla pace?
«La pace è ancora lontana; i negoziati finora non hanno prodotto niente. Adesso, c’è questo accordo tra Fatah e Hamas, tra Gaza e West Bank, ed è un bene. Noi salutiamo positivamente qualsiasi passo in avanti verso l’unità del popolo palestinese. La parte israeliana, naturalmente, non vede bene questo accordo. Ma non si può fare la pace con un popolo separato, è una contraddizione in termini. Perciò, se Israele vuole fare la pace, deve farla con questo popolo, con questa realtà. Gli israeliani dicono: “Non abbiamo un partner con cui fare la pace
”’. Ma il partner è quello che hai davanti, devi trattare con quello lì, non con quello che vorresti. La pace non è automatica, è il frutto di certe condizioni: penso alla Pacem in Terris del santo Giovanni XXIII: è un capolavoro, non solo di Chiesa, ma anche di giustizia sociale tra le nazioni e tra i popoli. La visita di Papa Francesco sarà certamente positiva e porterà un contributo, ma non ci facciamo tante illusioni, la situazione è tale che non penso possa riuscire a far superare le difficoltà e gli ostacoli che ci sono sulla strada della pace».
© 2014 Romina Gobbo
pubblicato su La Voce dei Berici – speciale Pellegrini con Papa Francesco – 25 maggio 2014