«Il popolo palestinese e quello israeliano dovranno vivere insieme. Questo è l’unico futuro possibile»: parola di Hafez Huraini, 37 anni, palestinese, padre di cinque figli. E, se lo dice lui, che dal 2004 ‘resiste’ ad At Twani, un villaggio circondato dalle colline a sud di Hebron, un’ottantina di chilometri da Gerusalemme, in una delle aree più povere della Cisgiordania (considerata, dagli arabi, territorio occupato, ma, dagli israeliani, territorio conteso, ovvero zona C, e di cui si sono assunti il controllo amministrativo e militare), bisogna quantomeno, continuare a sperare.
Hafez ed At Twani (300 abitanti, che vivono per lo più di pastorizia e agricoltura) e altri 13 villaggi dei dintorni sono il simbolo della resistenza nonviolenta ai soprusi dei coloni israeliani, che qui vivono nell’insediamento di Maon (creato nel 1982) e nell’avamposto Hill 833, chiamato anche Havat Maon (sorto nel 1999, ma considerato illegale sia dal diritto internazionale, che dalla legge israeliana), racchiuso in un boschetto di pini, a circa 150 metri dall’ultima casa di At Twani.
Hafez – il cui viso segnato parla di un passato tormentato e le mani callose raccontano di una vita dura, spesa nei campi -, grazie al suo carisma è diventato il leader del movimento nonviolento South Hebron Hills Committee. Il suo paese di origine, Garattin, è stato spazzato via nel ’48 e la madre, Fatima, ha dovuto lasciare la sua terra. Eppure proprio questa donna, da un letto d’ospedale dopo un’aggressione, ha chiesto al figlio di scegliere la nonviolenza. «Sono nato in una famiglia che ama la pace e in una zona che ama la pace. La mia comunità ama la pace». Ricostruire le case distrutte, rimuovere a mano i blocchi stradali, manifestando pacificamente per far smantellare i muri: sono i loro modi di resistere. «Loro distruggono la moschea, noi per un po’ preghiamo nelle tende, poi la ricostruiamo».
© 2014 Romina Gobbo
pubblicato su La Voce dei Berici – speciale Pellegrini con Francesco – domenica 25 maggio 2014