«Questa visita di papa Francesco sta destando un entusiasmo talmente grande, che ha anche una parte – non dico di delusione, perché è una parola troppo forte -, ma di dispiacere, perché il Santo Padre si fermerà solo tre giorni. Tutti vorrebbero che rimanesse qui almeno un mese, ma non sarebbe sufficiente lo stesso»: trovo monsignor Giuseppe Lazzarotto, nunzio apostolico in Israele, nella sede della Delegazione apostolica, sul Monte degli Ulivi, proprio nella stanza dove cinquant’anni fa si incontrarono papa Paolo VI e il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Atenagora, e dove, domenica 25 maggio, papa Francesco incontrerà privatamente l’attuale patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo I. I due capi della Chiesa firmeranno una dichiarazione comune, che sarà resa pubblica al Santo Sepolcro, dove si recheranno subito dopo.
Monsignor Lazzarotto, vicentino di origine, è ormai un veterano di visite papali, essendosi occupato, da nunzio in Giordania, della visita di papa Giovanni Paolo II e, da delegato apostolico in Australia, di papa Benedetto XVI, in occasione della “Giornata mondiale della gioventù”.
L’accento è sul carattere ecumenico del pellegrinaggio del 24-26 maggio. «Il Santo Padre ha detto fin dall’inizio che viene per commemorare il 50esimo anniversario dell’incontro fra Paolo VI e Atenagora I (il pellegrinaggio si svolse esattamente fra il 4 e il 6 gennaio 1964, ndr) che, visto a cinquant’anni di distanza, si rivela ancora di più come un avvenimento storico, per- ché ha inaugurato una stagione assolutamente nuova nel dialogo tra i cristiani. Questo gesto non è nato per caso, era un gesto voluto e preparato da tanto tempo, era qualcosa che questi due grandi uomini di Dio si portavano nel cuore. Bisognava trovare il modo di dare questo “colpo di aratro” – come disse Paolo VI rientrando a Roma – ad un terreno che era molto indurito. C’erano stati quasi 1.000 anni di separazione. I cristiani praticamente non si parlavano. Papa Paolo VI, primo Papa a recarsi in Terra Santa, dai tempi di Pietro («Noi siamo disposti a prendere in considerazione tutti i mezzi ragionevoli in grado di appianare le vie del dialogo») e il patriarca Atenagora («Da secoli il mondo cristiano vive nella notte della separazione. I suoi occhi si sono stancati di guardare nelle tenebre. Possa quest’incontro essere l’alba di un giorno luminoso e benedetto, in cui le generazioni future, comunicando allo stesso calice del Santo Corpo e del prezioso Sangue del Signore, loderanno e glorificheranno nella carità, nella pace e nell’unità, l’unico Signore e Salvatore del mondo») hanno inaugurato una pagina assolutamente nuova. “Da una parte e dall’altra – disse ancora Paolo VI – le vie che conducono all’unione sono lunghe e disseminate di difficoltà. Ma le due strade convergono l’una verso l’altra e approdano alle sorgenti del Vangelo”. Molte cose sono, poi, seguite, anche nel contesto del Concilio Vaticano II, aperture ecumeniche, iniziative a tutti i livelli. Ma quella fu la prima espressione di questo grande movimento teso all’unità, nato all’interno della Chiesa cattolica e del mondo ortodosso, e che continua ancora. Stiamo ancora raccogliendo i frutti e non abbiamo ancora finito di raccoglierli».
Quindi, papa Francesco continuerà sulle orme di Paolo VI.
«Credo che la sua intenzione sia proprio aprire nuovi solchi in questo terreno oggi dissodato, nuovi modi di capirsi, di parlarsi, di collaborare e di condividere il moltissimo – quasi tutto – che abbiamo in comune. Da moltissimi anni ormai, per la festa dei santi Pietro e Paolo, una delegazione da Costantinopoli si reca a Roma e per la festa di Sant’Andrea, una delegazione da Roma va a Costantinopoli. I due fratelli, Pietro e Andrea, e i loro successori, rispettivamente di Roma e di Costantinopoli. Ma mai si era visto il patriarca di Costantinopoli andare per l’inizio solenne del pontificato di un papa. Bartolomeo è stato il primo. E il 19 marzo 2013, ha partecipato alla cerimonia di apertura del pontificato di papa Bergoglio e proprio lì è nata l’idea della commemorazione del 50esimo anniversario dell’incontro dei loro predecessori. La celebrazione, non sarà solo con Bartolomeo, ma anche con tutti i rappresentanti delle Chiese cristiane di Gerusalemme, per fare memoria, e per rilanciare, incoraggiare quel movimento di dialogo, di intesa, che già c’è, rinforzarlo, e aprire nuove prospettive».
Possiamo dire che Oriente e Occidente ormai sono insieme?
«Non ancora pienamente e come vorremmo, ma diciamo che siamo sulla strada. Per i tempi, si vedrà. Dobbiamo considerare che ci sono stati quasi 1000 anni di separazione, non si possono rovesciare le cose in qualche anno, ci vuole tempo, ci vuole pazienza. Papa Francesco ha una bellissima espressione in spagnolo: “El camino se hace al andar”, ovvero muovendosi si costruisce la strada che si percorre insieme, però bisogna muoversi. Se tu aspetti che tutto sia a posto per metterti in cammino, non risolverai mai niente. Non ci dobbiamo aspettare la piena unità come un regalo, la dobbiamo costruire noi trovando nuove strade, nuovi modi, nuove espressioni, anche perché le circostanze storiche cambiano, le persone cambiano».
Quali diversità permangono?
«Siamo divisi dal punto di vista formale, però ci sono molte cose che condividiamo. Io ero qui a Gerusalemme trent’anni fa (dall’82 all’84) e vedo la differenza con oggi. I cristiani, non solo si ritrovano insieme, ma vogliono trovarsi e vogliono pregare insieme. Trent’anni fa questo desiderio, questa volontà non erano così espressi, così evidenti. Dal punto di vista teologico, non abbiamo più nessuna differenza. Papa Giovanni Paolo II ha firmato parecchie professioni di fede cristologica con i capi della Chiese non cattoliche. Le questioni teologiche, dibattute nel passato, sono ormai superate. Quello che rimane e che ci divide ancora è la comprensione del Ministero di Pietro e dei suoi successori e il modo di metterlo in pratica (quello che si chiama l’esercizio del primato). Dobbiamo trovare la maniera di ritornare a quello che eravamo nel primo millennio, quando eravamo tutti insieme e il ministero di Pietro era capito, accettato, vissuto. Poi, per motivi storici e politici, si è creata questa frattura. Adesso si tratta di vedere come possiamo riprendere quella posizione nelle mutate circostanze storiche. Poi c’è la parte disciplinare, ma quello è più facile, da sempre le Chiese d’Oriente hanno avuto un modo diverso di esprimere la propria fede, la propria liturgia, questo non è un ostacolo, è un arricchimento».
Ma la gente si sente unita?
«Io credo che se dipendesse dalla base, l’unione sarebbe fatta domani. La gente non ha difficoltà a mischiarsi, a trovarsi insieme. È, però, importante che anche i vertici diano non solo l’esempio, ma facciano da forza trainante. Il popolo di Dio, poi, non ha difficoltà a seguire su questa linea».
Come vanno i rapporti con lo Stato di Israele?
«Sia con Israele che con l’Autorità nazionale palestinese abbiamo buoni rapporti. Il problema non è il rapporto della Santa Sede con Israele e la Palestina, le questioni sono altre e hanno conseguenze sulla vita delle persone. Il dialogo di pace è difficile tra i due. A mio avviso, il ruolo della comunità cristiana è di cercare di mantenere viva la speranza nel cuore della gente. È il grande sforzo che la Chiesa locale fa, attraverso le scuole, l’insegnamento, gli alloggi, l’offerta di un lavoro, per offrire sostegno alle nostre comunità».
Qualcuno si è detto dispiaciuto del fatto che non ci sarà l’incontro interreligioso, che invece volle Benedetto XVI.
«Papa Francesco ha detto che vuole dare a tutto il suo viaggio un carattere interreligioso. È la ragione per cui porta con sé due suoi amici personali, da quando era arcivescovo a Buenos Aires: il rabbino Abraham Skorka, rettore del Seminario rabbinico latinoamericano di Buenos Aires, e l’imam Omar Abboud, ex segretario generale del centro islamico in Argentina. Vengono come membri del seguito ufficiale, saranno con il Papa per tutto il viaggio. È una novità, non è mai successo con altri papi».
Che cosa potrebbe conseguire alla visita di papa Francesco?
«Come effetto immediato della visita di papa Paolo VI, cinquant’anni fa, furono creati l’università cattolica di Betlemme, che ha formato centinaia di leader della società palestinese, e l’Effetà, l’istituto per la riabilitazione dei bambini sordi. Una terza iniziativa fu l’istituto ecumenico Tantour, centro di studi, ma anche luogo di ecumenismo vissuto. Le visite del Papa sono delle sementi che vengono gettate, si vedrà dopo cosa questa semente produrrà. La visita del papa non è mai un atto circonstanziale, o burocratico, o formale. Lascia sempre un’impronta».
© 2014 Romina Gobbo
da Gerusalemme
pubblicato su La Voce dei Berici – speciale Pellegrini con Francesco – domenica 25 maggio 2014