La Terra Santa non sarà più la stessa dopo la visita di papa Francesco. Chi prima poteva dire di non sapere, oggi non ha più scuse. “Vieni e vedi”, dicono gli accompagnatori di Terra Santa. Perché, se occhi e cuore non sono aperti, anche in pellegrinaggio si possono non vedere le “pietre vive”. Papa Francesco ha visto. Nonostante gli spostamenti in elicottero, nonostante la security israeliana, nonostante l’avversione degli ebrei oltranzisti. Questo pellegrinaggio, nato per commemorare l’incontro del 1964 fra Paolo VI e il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Atenagoras, è andato oltre. Paolo VI è stato il primo papa, dopo Pietro, a visitare la Terra del Santo. Papa Francesco è l’uomo nuovo che, da buon gesuita, “non butta via niente”; rilegge il passato e lo reinterpreta, dandogli nuovo slancio. Come fa il Nuovo Testamento, indissolubilmente legato al Vecchio, perché l’identità messianica di Gesù affonda le sue radici nella storia passata. In questo territorio – terra promessa per gli ebrei, luogo della nascita e della vita di Cristo, paese dell’ascensione al cielo del profeta Muhammad -, compreso tra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo, non si può prescinder dalla politica: la storia è politica, la religione è politica, perfino l’archeologia è politica. Me l’avevano sottolineato tutti i miei interlocutori due settimane fa, quando sono stata lì. Tutto è politica, ma papa Francesco “verrà qui per pregare sul luogo delle origini e per rinforzare l’unione fra le Chiese cristiane, e il dialogo tra esse e le altre confessioni religiose”. Questo, certo, ha fatto papa Francesco. Ma dalla politica non si può prescindere. E anche se il Papa è rimasto sul suo terreno – quello spirituale – ogni suo gesto rimanda alla speranza dell’avvio di un processo politico virtuoso. La fronte appoggiata al muro di Betlemme. Nessuna parola. Perché davanti alla “cicatrice di cemento” si può solo stare in silenzio. Ma, con grande equilibrio diplomatico, poi anche l’altro muro, quello occidentale (residuo del Tempio di David, più conosciuto come “muro del pianto”, ndr), il Luogo sacro per eccellenza degli ebrei. Ancora silenzio.
Papa Francesco sa benissimo che quei due muri sono i confini geografici e religiosi, ma sono soprattutto i confini delle coscienze, quelle barriere umane, di cuore, molto più difficili da abbattere di quelle fisiche. Perché la crepa magari prima o poi si allarga e diventa uno squarcio, ma è poca cosa di fronte al problema della riconciliazione. Lo sanno bene nell’ex Jugoslavia. Il muro “fa bene”, perché ti permette di non vedere, di non l’altro come tuo simile. Se l’altro è diverso, allora lo puoi denigrare, demonizzare, distruggere… Ecco, dunque, da Betlemme, l’appello per i due Stati: «Lo Stato di Israele ha diritto di esistere e di godere della sicurezza; lo Stato palestinese ha diritto a una patria sovrana, a vivere con dignità, a viaggiare liberamente».
Ed entrambi hanno diritto e bisogno di pace. Da qui l’invito al presidente israeliano Shimon Peres e al presidente dell’Autorità nazionale palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) all’incontro “a casa mia” (molto probabilmente si riferisce a Santa Marta, per evitare tutti gli “orpelli”, che sarebbero necessari nei palazzi vaticani), per pregare insieme. Solo da lì si può ripartire, dalla preghiera. Non certo dalla storia, perché il peso della storia qui è più evidente che altrove. E poi «ingerirsi nelle trattative – ha detto papa Francesco in conferenza stampa durante il viaggio di ritorno – sarebbe una pazzia». Un incontro pensato da tempo e preparato certamente con l’ausilio del segretario di Stato, Pietro Parolin. L’appuntamento a breve (probabilmente l’8 giugno), perché a luglio scade il mandato di Peres, “uomo di pace” (nel 1994, in seguito agli accordi di Oslo, ha ricevuto il premio Nobel per la pace, insieme a Yitzhak Rabin e Yasser Arafat, per gli sforzi profusi nel processo di pace nel Vicino Oriente). Certo, Peres non ha il peso politico del premier Netanyahu, tuttavia, gode di grande prestigio nell’opinione pubblica internazionale e negli ambienti diplomatici.
«Non si usi il nome di Dio per la violenza»: tuona Bergoglio a Gerusalemme, dalla Spianata delle Moschee, teatro nel 2000 della “passeggiata” di Sharon, allora capo dell’opposizione del Parlamento israeliano, che diede il “la” alla seconda Intifada.
Poi il Pontefice è andato allo Yad Vashem, il memoriale della Shoah, simbolo di tutte le aberrazioni umane. William, 5 anni, americano; Jessica, 7 anni, italiana; Jole, 10 anni, polacca… scandisce una voce, con tono immutabile. Continuerà a ricordare per l’eternità i nomi del milione e mezzo di bambini uccisi nelle camere a gas. Una tragica lista. Un nodo ti prende la gola. Non puoi non piangere. Ma quando esci, ti rendi conto che quel mausoleo ingigantisce il negativo della memoria, e àncora per sempre al passato. Un’altra barriera. Che fare? Bisogna provare a guardare avanti. Non è mancanza di rispetto. Papa Francesco lo ha detto ai bambini palestinesi dei campi profughi, che urlavano “Abbiamo visto la ‘nakba’=catastrofe negli occhi dei nostri nonni” (è il nome con il quale il popolo palestinese si riferisce all’estromissione di buona parte degli abitanti arabi dalla Palestina a seguito della costituzione dello Stato di Israele del ’48 e della guerra dei sei giorni del ’67, ndr). A loro papa Francesco ha detto: «Vi capisco. Ma non lasciate che il passato determini la vostra vita». È dalle nuove generazioni che può venire il cambiamento. L’importante è che ai bambini sia data la possibilità di crescere, invece ce ne sono ancora troppi di ‘sfruttati, maltrattati, schiavizzati'”.
Eppure, solo le nuove generazioni, che vivono in questo tempo, possono rompere il circolo vizioso di un conflitto che non è guerra aperta (le guerre sono finite nell’82 con l’invasione del Libano da parte degli israeliani), è più subdolo, stagnante, incancrenito. È fatto di momenti di crisi acute (piombo fuso: 27 dicembre 2008-18 gennaio 2009) e di momenti di calma apparente.
La messa al Cenacolo ha concluso la visita di papa Francesco. Lì da dove “la Chiesa è partita, con il pane spezzato tra le mani, le piaghe di Gesù negli occhi, e lo Spirito d’amore nel cuore…”: Il luogo che “ci ricorda il servizio, il sacrificio, l’amicizia, il congedo del Maestro e la promessa di ritrovarsi con i suoi amici”. Ma per i cristiani ritrovarsi a celebrare al Cenacolo non è possibile, perché questo è uno dei luoghi della contesa, sacro a tutte e tre le religioni monoteiste, e sotto il controllo dello Stato di Israele, che ne è il proprietario. E a riprova di quanto sia ancora difficile la convivenza, un gruppo di cristiani alla porta di Jaffa (che immette nel quartiere cristiano), che voleva vedere passare il Papa, è stato fermato dalla polizia israeliana. Il Custode di Terra Santa, il francescano fra Pierbattista Pizzaballa, me l’aveva detto: “Gerusalemme sarà blindata, le strade saranno vuote. Questa non è Rio de Janeiro”, e le regole le detta Israele. Come la deposizione di fiori sulla tomba di Herzl, padre del Movimento sionista.
I cristiani, pur se appena 450mila in tutta la Terra Santa (200mila a Gerusalemme), “sono parte di questa terra, della sua storia, del suo presente”, scrive Haaretz, autorevole quotidiano israeliano. Per questo i cristiani restano, perché «hanno un ruolo importante da giocare nel piano divino della salvezza», sottolinea il patriarca dei Latini, Fouad Twal.
© 2014 Romina Gobbo
pubblicato su La Voce dei Berici – domenica 1 giugno 2014