C’è chi preferisce andare in profondità e chi preferisce guardare in alto. Lo si chiami come si vuole il mondo interiore, l’importante è che conviva con la quotidianità. Per non cadere nel dualismo. “Non c’è nessuna opposizione tra materialismo e dimensione spirituale della vita. Sono dimensioni diverse, che vanno tenute insieme, e dove la sfida è la concretezza delle domande da affrontare”. Insomma non c’è nulla di più concreto di una vita spirituale. Parte da qui la chiacchierata con don Andrea Peruffo, responsabile della Pastorale vocazionale della Diocesi di Vicenza.
“Magari provo ad accontentarmi di avere da mangiare, ma poi mi rendo conto che esiste un anelito nel cuore umano per cui, sistemati alcuni bisogni, se ne presentano subito degli altri”, aggiunge. Penso al culto dei morti. Chi non si chiede se con la morte finisce tutto. “La vita, le domande te le pone. Può essere un fatto traumatico, come la malattia, ma anche un fatto gioioso, come la vita che nasce. Diventare padre o madre è qualcosa che apre a dimensioni altre”. Oppure può essere qualcos’altro ancora: quel ‘dolce naufragar’ di Leopardi. Prima o poi tutti ci dobbiamo lasciar andare al ‘naufragio’. “Ma serve il riconoscimento. E si riconosce solo ciò che di cui si è fatto esperienza. Riconoscere vuol dire che dentro di noi c’è una sintonia, un link – per stare nel mondo di oggi -. La sfida, soprattutto per noi educatori, è riuscire ad aiutare le persone ad affacciarsi a questo mondo, a capire che non è reale solo quello che si vede, che si tocca”. Qualcuno ricorre allo psicologo (don Andrea è anche psicologo, ndr) per arrivare a questo. “La psicologia può arrivare ad aprire, così che poi la persona possa fare chiarezza. Lo psicologo pulisce il terreno dalle pietre, libera da alcuni inceppamenti. Quando il terreno è ripulito, mi ritrovo con uno spazio di libertà ulteriore. La psicologia mi aiuta a scavare nel passato, ed è necessario, perché per andare in alto, l’albero deve avere radici ben radicate. Fatto questo, sono più libero di venire a contatto con la mia interiorità, qualcosa che non vedo, ma sento, che è parte di me e che mi permette di incontrare l’altro in profondità”. Lei mi attira con la ‘ricompensa’. Ma la strada è lunga e faticosa. “Per questo noi spesso ci accontentiamo. Ma accontentarsi è un peccato, dobbiamo cercare una vita piena, totale. Abbiamo bisogno che qualcuno ci dica che c’è qualcosa di più grande. Allora, ecco l’incontro con Dio. La vita spirituale è una vita continuamente in ricerca. La vera novità di Galileo non fu il cannocchiale, ma averlo puntato sulle stelle. Più cerchi, e più ti appassioni alla ricerca. E’ insito nell’uomo. Perché l’uomo è continuamente inquieto? Accontentarsi vuol dire creare risposte parziali e semplificate. Una nuova auto, l’ultimo modello di cellulare. Bello ma… c’è dell’altro. Allora, ecco l’inquietudine”.
Ci sono momenti storici più o meno predisposti alla ricerca? “No, l’uomo è in ricerca costante, ma ogni epoca storica ha le proprie modalità. Oggi, per esempio, facciamo i conti con la post modernità. La crisi non è solo economica, ma anche culturale e antropologica. Questo dovrebbe spingere i giovani a cercare altri stili di vita. O ci mettiamo nelle mani di guru che hanno tutte le risposte facili, oppure ci mettiamo coscienti a cercare insieme. In gioco c’è un Dio che si pone in dialogo. Dio non ti dice che cosa devi fare; Egli ha un progetto d’amore, non definito nei dettagli, la tua vita te la costruisci in un dialogo continuo. Io sono prete, ma il mio essere prete non è predeterminato, nel mio rapporto con Dio definisco quotidianamente un nuovo modo di vivere il mio ministero”.
Come si pongono i giovani davanti alle grandi domande? “Il mondo della preadolescenza e dell’adolescenza dimostra un’esplosione di vita e grandi aperture, grandi spazi per l’infinito e per il ministero. A volte, però, hanno paura di dire quello che vivono, che provano. Che cosa deve fare l’adulto per aiutarli? L’adulto deve incoraggiare l’altro a seguire il proprio sentiero. Deve dire: “Io ci sono, ma tu devi fare la tua strada”. Questo anche se l’altro percorre strade che io posso no condividere. Penso ai giovani preti. Chi meglio di Dio, che conosce il cuore umano, può lavorare affinché le loro potenzialità emergano? Questo mondo giovanile è più silenzioso, meno appariscente, fa meno rumore, ma è altrettanto reale”.
Ha parlato di guru. Mi tocca fare la solita domanda scontata: perché la gente suole appassionarsi all’ashram indiano e pare non sapere che esiste una spiritualità cristiana? “Abbiamo una tradizione millenaria altrettanto significativa di quella orientale: i padri del deserto (il nome indica quei monaci, eremiti e anacoreti che nel IV secolo, dopo la pace costantiniana, abbandonarono le città per vivere in solitudine nei deserti d’Egitto, di Palestina, di Siria, per cercare la pace interiore, ndr), per esempio. Bisognerebbe riuscire a riscoprire quelle tradizioni belle e profonde che ci sono nella nostra storia. In Occidente, siamo figli del mondo logico, razionale, dell’Illuminismo, con l’idea di voler capire e dimostrare tutto. Ci rendiamo conto che non è possibile, ma siamo ancora fuori da una logica troppo intellettuale, che ha accentuato un aspetto della vita a scapito di altri, come il mondo delle emozioni. Ecco allora che molti subiscono il fascino di certe culture orientali, che hanno un diverso approccio. Però, non si deve generalizzare. La riscoperta del corpo, che c’è nel mondo adolescenziale. per esempio, può far paura, ma può anche aprire nuovi spazi”.
Ma se andiamo troppo in profondità qui e oggi, che cosa ce ne facciamo dell’aldilà? “Abbiamo bisogno di pensare che c’è un Dio che porta a compimento nell’aldilà tutto quello che noi abbiamo iniziato qui, ma non possiamo essere proiettati solo verso l’aldilà, perché il vangelo parte anche dalla concretezza storica; dal principio dell’incarnazione, che è lo scandalo del cristianesimo. Qui io mi devo giocare totalmente, impegnarmi, mi devo appassionare alle persone. Il punto di riferimento è l’incontro con un Cristo vivo, risorto, che mi provoca, mi smuove”.
E poi c’è il dopo. “Certo. Perché la domanda è: ‘E’ possibile che tutto quello che io porto come potenzialità di bene e come capacità d’amore, finisca quando io muoio? Il bene che ho voluto alle persone, il giorno che finirò di vivere, rimarrà solo nella memoria, o c’è spazio perché quel bene lì possa ampliarsi e arrivare a una sua pienezza?”.
© 2014 Romina Gobbo
pubblicato su La Voce dei Berici – domenica 1 giugno 2014