«Salirebbe mai su un’auto prima che questa fosse stata testata?», mi chiede Francesco Vignarca, coordinatore rete Italiana per il Disarmo. È quello che sta succedendo con gli F-35, gli ormai famosi cacciabombardieri d’attacco, della multinazionale statunitense Lockeed Martin. L’incendio scoppiato a bordo di uno dei veicoli, il 23 giugno scorso, ha convinto il Pentagono a stoppare i voli, almeno fintanto che non saranno effettuate tutte le necessarie ispezioni. Perché l’incendio è l’ultimo di una lunga serie di problemi tecnici: dalle crepe nella fusoliera alle perdite d’olio, tanto che Vignarca ha deciso di intitolare il suo ultimo libro “F-35, l’aereo più pazzo del mondo”. Un titolo azzeccato, visto che, spiega Francesco: «Nonostante si sia già in fase di produzione, i problemi continuano ad esserci, perché vengono relativamente risolti, e se ne manifestano di nuovi in continuazione». Il libro è uscito a dicembre 2013, nell’ambito di una collana dal titolo quasi profetico, “Fuori rotta” (Round Robin Editore).
Ma l’industria bellica non era quella che fa avanzare la tecnologia?
«Siamo noi che pensiamo che l’industria bellica faccia fare passi avanti nel settore della tecnologia. Internet, per esempio, diciamo che è nato dalla ricerca militare. Peccato, però, che abbia potuto svilupparsi e diventare quello che è diventato solo a metà degli anni ’80, quando è tornato sotto il Cern (Organizzazione Europea per la Ricerca Nucleare, il più grande laboratorio al mondo di fisica delle particelle, ndr) della Svizzera, ovvero in mani civili. La ricerca civile risce a fare salti più veloci di quella militare, perché è più aperta e trasparente, e quindi efficiente, Il programma Joint Strike Fighter, relativo agli F-35, è iniziato nel ’93, quindi è già vecchio oggi, e siamo solo a metà della realizzazione».
L’Italia prevede di acquistare 90 aerei, con una spesa complessiva di almeno 14 miliardi di euro. Quando la crisi è esplosa, allora qualcuno ha cominciato a tirar fuori la polemica. Ma è solo una questione di soldi?
«È vero. Uno dei punti che ha portato all’attenzione del problema è stata la spesa in un momento di congiuntura negativa. Noi, però, abbiamo cercato di andare oltre. Da sostenitori del disarmo, avremmo potuto dire: “Questi aerei non ci piacciono perché sono un’arma di guerra”. Invece, abbiamo “approfittato” dell’occasione per aprire in Italia il dibattito sugli armamenti, non molto praticato per paura di essere giudicati “anti-italiani”».
L’impressione che si ha, però, è che non riusciate molto ad incidere; il disarmo sembra sempre essere questione marginale…
«Nel 2003, tre milioni di persone sono scese in piazza contro la guerra in Iraq, eppure non siamo riusciti ad incidere molto. Negli anni successivi, invece, che io definisco “catacombali”, perché non ci sono state grosse manifestazioni, siamo riusciti ad essere più efficaci. Per esempio, su nostra pressione, l’Italia è stata tra i primi Paesi a ratificare il Trattato internazionale sul commercio di armi convenzionali. Azioni non molto evidenti all’esterno, ma che incidono, ci permettono di continuare a lavorare. Poi servono anche i momenti forti, com’è avvenuto lo scorso 25 aprile a Verona, con l’iniziativa “Arena di pace e disarmo”».
Prima regola, dunque, sapere di cosa si sta parlando.
«Certo. Anche per gli F-35, se abbiamo avuto la possibilità di fare audizioni alla Camera, è perché siamo stati capaci di portare dei dati. Se avessimo detto castronerie, ci sarebbero saltati al collo, e giustamente».
La vostra campagna “Taglia le ali alle armi” è chiara: niente armi, niente esercito. Fine della difesa?
«Siamo consapevoli che le cose si raggiungono per gradi. Lo dice il vangelo: “Ciascuno di voi mi segua”, non mi raggiunga. Il vero utopista è quello che sa che la meta si raggiunge a piccoli passi. Noi siamo chiamati a cominciare a costruire, il resto lo faranno i nostri figli, i nostri nipoti. Non è solo una questione di etica, ma anche di convenienza. Da un conflitto gestito, tutti traggono beneficio. Oggi gli Stati hanno a disposizione l’esercito per la difesa, noi cerchiamo di costruire – almeno mentalmente – altri strumenti: i corpi civili di pace, per esempio. L’esercito ha potuto qualcosa in Iraq? In Afghanistan? Per non parlare di Israele. Allora, perché non provare a trovare un’alternativa? In fondo, è il sogno di Isaia: “Convertire le spade in vomeri”».
© 2014 Romina Gobbo
pubblicato su La Voce dei Berici – domenica 13 luglio 2014 – Mondo – pag. 3