«Via, lontano, dimentica». Un urlo lacerante. Dopo, è il deserto. Geografico: il Sahara. Ma è soprattutto il deserto dell’anima. Perché non sempre la distanza riesce a smorzare il dolore. Si rimargina la ferita, ma la cicatrice è lì, a memoria perenne. Il figlio della violenza, quella peggiore, l’incesto, tabù ancestrale. Lo vomita fuori quell’orrore, Oblada, in un monologo eccezionale. Nelle sue parole c’è la sofferenza di tutte le donne abusate nel mondo.
Ashai Lombardo Arop, trent’anni, è la protagonista femminile di Finis Terrae, l’opera di Antonio Calenda su drammaturgia di Gianni Clementi, messa in scena (piazza del Duomo, dal 17 al 23 luglio), a conclusione della 68esima Festa del Teatro di San Miniato (Pisa). Cittadina italiana, figlia di madre calabrese e di padre sud-sudanese, Ashai ha vissuto sulla sua pelle la sofferenza di essere “meticcia”. «Quand’ero bambina, avevo il rifiuto totale. Mi sentivo senza patria, incompresa, i compagni di scuola mi prendevano in giro per la carnagione scura e i capelli ricci. Odiavo l’Italia, odiavo l’Africa. Poi, quando cresci, senti il richiamo del sangue, delle radici. Vuoi sapere. Sono partita per il Sud Sudan e ho imparato ad ascoltare. Le storie di mio padre, dei miei cugini, degli amici. Storie terribili. La guerra. Il desiderio di fuggire. Di una vita migliore. Il deserto. Il barcone. Qualcuno ce l’ha fatta. Qualcun altro riposa sotto quel cimitero sottomarino che è il Mediterraneo. La mia famiglia. Per questo ho potuto entrare in una parte così sofferta, perché quella sofferenza io ce l’ho dentro, incisa nei miei geni. Quello che dico nel monologo è come se mi appartenesse, come se l’avessi accumulato per tutta la vita, e avesse finalmente trovato il momento di uscire. All’inizio, non è stato facile, ma ora, quando recito, quasi mi duole la pancia, come se davvero un figlio si muovesse dentro di me».
È un fiume in piena Ashai, mentre mi parla di quel suo “50% nero”. «Gli africani vivono il dolore in modo diverso dagli occidentali. Sono forti, tenaci, non si arrendono mai, perché sono abituati da sempre a lottare per la vita, lo imparano nei riti di iniziazione, che scandiscono i passaggi di età. Così, anche quando ti raccontano le atrocità che hanno sopportato, lo fanno col sorriso».
Non si piegano. Parola di Ismaila Mbaye, Moustapha Dembélé, Moustapha Mbengue, Djibril Gningue, Ousmane Coulibaly, Inoussa Dembele, Elhadji Djibril Mbaye. “Voi vi ostinate a ricacciarci indietro, a sequestrarci borse ed accendini, a imbarcarci su aerei, clandestini. Ma non è solo per la libertà che noi ogni volta torniamo. Che c’è di mezzo? C’è la dignità! La speranza… noi non ci arrendiamo. Arrendersi è da vili, da vigliacchi. Rinchiudeteci pure come sacchi, in celle, in magazzini disumani! Ammassati come sardine in olio, disinfettati come nei lager infami. Ma noi siamo uomini, non siamo origami che potete piegare e ripiegare. E modellare le forme che volete. È inutile. Non ci piegherete! Siamo uomini e donne come voi…”.
Applausi a scena aperta per una performance inconsueta per il pubblico del dramma popolare di San Miniato, abituato all’impegno civile, ma su genere “classico”. Invece, Calenda ha scelto di essere dirompente. Perché solo così si possono tenere deste le coscienze. La continua conta dei morti del Mediterraneo porta con sé il rischio dell’assuefazione. Che c’azzecca – verrebbe da dire – Medea con due contrabbandieri dall’animo gentile (il romano Peppe e il siciliano Carbieli, magistralmente interpretati da Nicola Pistoia e Paolo Triestino), o Munch con i migranti? E il moderno Caronte (Francesco Benedetto)? Che così si rivolge al “suo carico”: “Poveri illusi, gente disgraziata. Ma davvero pensate ci sia posto per la vostra moltitudine affamata…”. Tutto già visto.
La supremazia del bianco sul nero. Il negriero e lo schiavo. Le catene e la frusta. Un mondo che non impara dagli errori del passato è un mondo destinato a naufragare, come quel relitto, sbattuto dalle onde sulla riva. Mai come quest’anno il Dramma Popolare è sulla notizia. Quella che non avremmo mai voluto sentire. Lampedusa, 3 ottobre 2013, le immagini di 368 bare allineate sotto un capannone, fanno il giro del mondo. Mai più. La gente urla l’indignazione. Ma, come sempre, tutto passa. E, sabato (19 luglio), mentre a San Miniato andava in scena Finis Terrae, sul Canale di Sicilia andava in scena un’altra tragedia. L’ennesima.
«La cultura del benessere ci porta a pensare solo a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, che porta alla globalizzazione dell’indifferenza»: don Piero Ciardella, direttore artistico della Fondazione Istituto Dramma Popolare di San Miniato fa sue le parole di papa Francesco (Lampedusa, omelia dell’8 luglio 2013). Ma the show must go on. «Che deve far ragionare, ma non dev’essere troppo pesante, per non ottenere l’effetto contrario – continua don Ciardella -; per questo, ci sono momenti di grande ironia».
Quella sottile di Peppe e Carbieli, quella sagace del negriero. Su tutto, quella intelligente del regista.“Il terzo mondo vi piomba in casa”: dicono i migranti. Costumi tribali e danze “invasate”, retaggio antico di uomini che sono semplicemente “musicisti, portieri, muratori, mendicanti, stupidi, maldestri…”. Eppure, l’Occidente si ostina a rivendicare la superiorità della propria cultura. E non sa che la danza africana non è mero folclore, è sapienza che viene da lontano e scandisce i momenti importanti della vita.
Non sa che quello di Munch è il grido di dolore di ogni uomo, che Medea è la madre terra, che tutti genera e tutti seppellisce. Bianchi e neri. Italiani e africani. Romani e siciliani. E allora che la musica fluisca! Sotto la croce. In una notte di Natale. Su una costa spazzata dal vento. Sul sangue dei morti e sui sogni dei vivi. Sul sorriso di due poveri cristi che salvano un negro dagli “occhi da matto”, con la respirazione bocca a bocca. Sui cristiani e sui musulmani. Sui resti di una bagnarola pagata a caro prezzo. Su una donna le cui viscere fremono. Rulla il djembè. Rispondono le campane. La vita fiorisce. Sul palco di un teatro della “Città senza teatro”.
L’opera, che rimarrà a San Miniato fino al 23 luglio, per poi partire per una tournée nei migliori teatri d’Italia, è frutto di una coproduzione tra Fondazione Istituto Dramma Popolare di San Miniato, guidata da Marzio Gabbanini, e Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia.
© 2014 Romina Gobbo
pubblicato su famigliacristiana.it – 21 luglio 2014
http://www.famigliacristiana.it/articolo/Lampedusa_4791.aspx