Husam Ibrahim Najjar, 14 anni; Hijaziyya Hamed al-Hilo, 80 anni, Moussa Shehda Moanner, 60. E poi Wasim, Shuhaibar Afnan, tutti di 8 anni. L’elenco potrebbe continuare a lungo, perché sono ormai più di 600 le vittime palestinesi dall’8 luglio 2014, inizio dell’operazione israeliana “Protective Edge” su Gaza.
«Ti giuro, che appena ti dicono “bombardiamo la tua casa”, hai meno di un minuto per uscire»: racconta il giovane Mamo, via skype. E non c’è luogo dove sentirsi totalmente al sicuro.
Nonostante la conta dei morti continui a salire, nonostante gli appelli della comunità internazionale, nonostante le manifestazioni sulle strade di tutto il mondo, Israele non molla, neppure nel giorno dello shabbah (il riposo). Infatti, sabato scorso (19 luglio) interi quartieri di Gaza City sono stati bombardati a tappeto. Oggi il 44% della Striscia è off limits. Anche se con 363 chilometri quadrati di territorio, un milione e 800mila abitanti di etnia araba (con un tasso di crescita di quasi il 3% all’anno), con una densità abitativa pari a circa 5mila abitanti per chilometro quadrato, Gaza è sempre una trappola. L’embargo imposto da Israele a giugno 2007 (dopo che Hamas, l’ala palestinese dei Fratelli Musulmani, ha preso il controllo della Striscia), pesa come un macigno; ne sono conseguiti l’impoverimento e il sottosviluppo della società. L’80 per cento della popolazione dipende dagli aiuti internazionali; la disoccupazione dei giovani si aggira tra il 65 e l’80%. Acqua e luce sono erogati dalla “benevolenza” di Israele, che apre e chiude i rubinetti a piacimento. E poi ci si meraviglia se i gazawi (abitanti di Gaza, ndr) costruiscono i tunnel.
Brevi periodi di pace si alternano a periodi di violenza, che nel 2008- 2009 (Piombo Fuso) e nel 2012 (Pilastro di difesa) sono esplose in crisi acute.
Con ciò che sta accadendo in questi giorni, è la terza volta che Gaza viene pesantemente bombardata. Tanto che – viene da pensare – se anche si dovesse arrivare al tanto agognato cessate il fuoco, o la comunità internazionale prende la situazione davvero in mano, oppure la popolazione non potrà che interpretarlo come un’altra breve pausa tra una violenza e l’altra.
È vero da Gaza arrivano razzi, ma questi ordigni artigiani, costruiti dagli ingegneri di Hamas, non brillano certo per la precisione. E, comunque, a fronteggiarli c’è Iron Dome, il sistema missilistico di difesa israeliano. Il premier Benjamin Netanyahu può contare sul primo esercito del Medio Oriente – il quarto al mondo -, dotato di una tecnologia bellica avanzatissima. Al momento in cui andiamo in stampa (23 luglio), si registrano quasi 4.000 attacchi israeliani, di cui 2.500 attacchi aerei, 733 bombardamenti navali e 708 attacchi di artiglieria. Lo scontro è palesemente impari. Probabilmente, non sapremo mai chi davvero ha ucciso i tre giovani coloni, azione che ha dato fuoco alle polveri. Ma una certezza c’è: che il diritto umanitario vieta le punizioni collettive, definite crimini contro l’umanità dalla IV Convenzione di Ginevra.
«Non è una guerra, è un massacro», dice all’agenzia Fides Michel Sabbah, patriarca emerito di Gerusalemme dei Latini. Ed è un massacro inutile, perché «i cuori di israeliani e palestinesi si sono riempiti di nuovo di odio. L’unica via per uscire dalla spirale della violenza è quella di affrontare la questione di fondo, cioè l’occupazione israeliana dei Territori palestinesi. Ci sarà pace solo quando Israele riconoscerà la libertà e la sovranità dello Stato palestinese».
Ne è convinto anche don Renato Sacco, coordinatore nazionale di Pax Christi Italia, in questi giorni in Palestina con una piccola delegazione: «Per far sentire la nostra vicinanza alla gente. Centinaia sono i morti a Gaza. Dietro a tutto questo, c’è un peccato originale che si chiama occupazione israeliana dei territori palestinesi».
Ma quando Gaza non viene bombardata, la sensazione è che di quel- la striscia di terra non interessi nulla a nessuno. Forse è il momento di sdoganare l’uso della definizione “Territori occupati”, perché quello è il problema di fondo. Uno Stato che, nonostante le Risoluzioni Onu contrarie, occupa e colonizza un altro Stato, che costringe un popolo “in gabbia”, perché non è solo Gaza, è tutta la Palestina – tra muri e check point – ad essere una gabbia. Ecco perché non ha più senso la formula “due stati e due popoli”, facile formula usata da varie parti come soluzione del conflitto israelo-palestinese.
© 2014 Romina Gobbo
pubblicato su La Voce dei Berici – domenica 27 luglio 2014