L’utopia di Vittorio Arrigoni – Egidia Beretta racconta suo figlio

«Mio figlio parlava di un solo stato laico per i due popoli – dice Egidia Beretta, amdre di Vittorio Arrigoni, pacifista dell’International Solidarity Moviment, ucciso a 36 anni nella notte tra il 14 e il 15 aprile 2011 da un gruppo terrorista (versione ufficiale stabilita dal processo, ndr) -. Il suo era uno sguardo che già si proiettava nel futuro. D’altra parte, come si fa a parlare oggi di due stati? Dov’è la Palestina? La cui terra è mangiata continuamente dalla crescita degli insediamenti. Dove sono i confini? Il territorio è sempre più ridotto. Allora, meglio pensare a un unico stato, com’era prima, quando cristiani, ebrei, arabi vivevano insieme rispettandosi».

Signora Beretta, come si sente in questi giorni?

«Mi sento come durante Piombo Fuso. La sensazione, il dolore, sono gli stessi. Penso a Vittorio e al suo libro, letto tante volte, Restiamo umani (unica testimonianza quotidiana diretta di quel bagno di sangue). Stesse scene, stesso dolore, stesso sdegno. Sto male».

“Utopia”, com’era soprannominato Vittorio, originario di Bulciago (paesino di 2.700 abitanti in provincia di Lecco), era arrivato a Gaza nell’agosto del 2008 e con il suo impegno pacifista si era alienato le simpatie, tanto dell’estrema destra israeliana che dei salafiti islamici, che lo consideravano troppo vicino al governo “nemico” di hamas. Con il suo blog GuerrillaRadio, raccontava le sofferenze del popolo palestinese.

Che utopia era quella di suo figlio?

«Era un’utopia di speranza. Lui ci credeva. Quando arrivò a Gaza, scrisse che l’utopia si stava realizzando. Perché erano riusciti ad arrivare su una nave, infrangendo il muro d’acqua che sigilla la Striscia. Utopia è una luce, un faro che ci guida. Quello di cui mi stupisco – ma forse non dovrei – è come i governi non ascoltino la voce dei loro popol. Ai tempi di Piombo Fuso l’interesse della gente era blando, in questi giorni si stanno svolgendo manifestazioni in tutto il mondo. Le persone chiedono giustizia per la Palestina. Perché, mentre parliamo di Gaza, non dimentichiamo che l’entità è unica, anche se divisa in due territori. Io credo che la nostra voce dovrebbe essere maggiormente ascoltata, invece si tende sempre a concedere attenuanti ad Israele, la difesa, la sicurezza… In nome delle quali si uccidono anche i bambini. Ma quando si colpiscono i bambini, si colpisce la nostra vita. Non è una cosa inevitabile. Vittorio diceva che le uniche “operazioni chirurgiche” sono quelle dei medici che tentano di salvare un uomo fatto a pezzi».

Da madre, che effetto le faceva questo suo figlio votato ai deboli?

«Non so che cosa un’altra madre avrebbe pensato, ma io ero contenta, perché Vik era contento. Lui era un ragazzo inquieto, sempre alla ricerca del senso della vita. E questo senso l’ha trovato dedicandosi agli ultimi. Lo capisco, perché anch’io sono sempre stata un’idealista. Perciò, condividevo e lo sostenevo. Nella mia famiglia l’impegno sociale c’è sempre stato, anche quello amministrativo (la signora Beretta è stata sindaco di Bulciago), ma Vik è andato molto oltre, oltre i confini dell’indifferenza, dell’ignavia, della mancanza di solidarietà».

Vik aveva messo in conto di poter morire?

«Sì e me l’aveva confidato. Mi aveva detto che se gli fosse stata chiesta la vita, lui l’avrebbe data per i suoi fratelli palestinesi».

È mai stata a Gaza?

«No, non ne ho il coraggio. Mi piglia il magone. Vorrei andare, magari nei Territori occupati. A Gaza è più difficile, perché sarebbe come camminare dove ha camminato mio figlio. Non sono ancora pronta».

© 2014 Romina Gobbo

pubblicato su La Voce dei Berici – domenica 27 luglio 2014 – pag. 3 Mondo

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