Paura, panico, psicosi. Da quando, due settimane fa, negli Stati Uniti è morto il cosiddetto “paziente zero”, poi è stato confermato il contagio dell’infermiera spagnola che lo ha curato, ed è morta pure la prima persona in Europa, il mondo è in delirio. Così accade che, lunedì scorso, quando allo sportello profughi della questura di Roma un somalo, si è accasciato al suolo con “convulsioni, febbre alta e sangue dal naso”, è subito scattata la procedura di isolamento, salvo poi scoprire che si è trattato di un attacco epilettico. Nel tribunale di Milano, un ghanese, accusato di furto, si è sentito male, convulsioni e secrezione di sangue. Anche qui, grande frenesia, ma, l’immediato ricovero all’ospedale ha escluso ebola. Da notare che nessuno dei due aveva recentemente messo piede in Africa occidentale. L’India ha cancellato un summit con 54 nazioni africane previsto a dicembre, in cui erano attesi circa 1.000 delegati. Il governo marocchino ha chiesto il rinvio della Coppa d’Africa, in programma nel Paese, dal 17 gennaio all’8 febbraio 2015, “per evitare assembramenti cui partecipino Paesi colpiti dal virus”. Insomma, come ha dichiarato Margaret Chan, direttrice generale dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità), «la paura di essere infettati si è diffusa nel mondo molto più velocemente del virus». Tuttavia, questa epidemia di ebola, con i suoi quasi 4.500 morti (il tasso di mortalità sfiora il 70%) e 9.000 casi di contagio, è “maledettamente” seria. Quello che dispiace è che ancora una volta si apre un solco fra Nord e Sud. Perché in Africa occidentale di ebola si muore da tempo, almeno dallo scorso aprile. Eppure, nessuno se ne interessava, come sempre succede quando qualcosa non ci tocca da vicino. Poi, l’8 agosto, l’Oms ha fatto sapere che siamo “in piena emergenza internazionale”. Così, ci siamo accorti che nel mondo globalizzato non girano solo uomini e merci, ma anche virus e batteri. A questo punto, è bastato qualche caso a casa nostra per scatenare un delirio collettivo.
Ma il dottor Andrea Angheben, medico del Centro per le malattie tropicali dell’ospedale di Negrar (Verona), centro di riferimento regionale per il virus ebola, invita a non esasperare gli animi. «Niente panico, l’importante è lavorare bene, coordinati, con le giuste risorse. I rischi sono di due tipi. Quando recuperiamo i nostri medici e operatori sanitari, che hanno lavorato nei Paesi africani più colpiti, si tratta di saper gestire la situazione, applicando i protocolli. Ma, ovviamente, siamo preparati, conoscendone la provenienza. La questione è più complicata, invece, per quanto attiene a quelle persone che arrivano da noi, in clandestinità, e che non hanno per ovvi motivi, interesse a farsi identificare. Fermo restando che il rischio resta basso, visto che l’incubazione va dai dieci giorni alle due settimane: chi arriva qui attraversando il deserto e il Mediterraneo, di giorni di viaggio ne ha fatti molti di più, perciò non può rappresentare una minaccia virale acuta trasmissibile. Il problema riguarda sostanzialmente chi arriva con l’aereo. Tuttavia, in Italia il rischio è meno elevato che altrove, per- ché non abbiamo voli diretti con i tre Paesi africani maggiormente colpiti (Liberia, Sierra Leone e Guinea Conakri). Mentre altri Paesi europei hanno voli diretti e lì la possibilità che arrivino persone con il virus in incubazione è reale». Proprio giovedì 16 ottobre, a Bruxelles il vertice europeo ha fatto il punto per poter poi stabilire procedure di sicurezza comuni per gli aeroporti. Ma il Regno Unito ha già iniziato a controllare la temperatura di chi proviene dall’Africa, agli aeroporti di Heathrow e Gatwick.
Già due vaccini sono stati testati sugli animali con risultati positivi, ora li si sta testando sugli uomini. Secondo il dottor Angheben, «Questa epidemia è servita almeno ad accelerare i tempi di produzione del vaccino, che sarà pronto nel 2015». Nel frattempo, anche la produzione del vaccino, che sarà pronto nel 2015». Nel frattempo, anche la Cina ha fatto sapere che sta lavorando all’approvazione accelerata di un farmaco anti-ebola, il JK-05.
Intanto, i titoli dei giornali e le immagini di tute e maschere evocano gli scenari apocalittici della peste di manzoniana memoria. Un’epidemia che devastò l’Italia centro-settentrionale, evidenziando tutta la fragilità della specie umana. Quando, insieme alle persone, “morivano” anche i vincoli di sangue. Raccontano i cronisti dell’epoca che “madri e padri abbandonavano i figliuoli”. Forse questo è il rischio più grande anche di ebola: l’abisso fra le relazioni umane, già pesantemente minate da una crisi economica, di cui non si vede la fine, e dove, per alcuni, l’unica scappatoia sembra essere “mors tua, vita mea”.
© 2014 Romina Gobbo
pubblicato su La Voce dei Berici – domenica 19 ottobre 2014