“Il sangue chiama sangue” – Quel messaggio eschileo (purtroppo) sempre attuale

Non c’è pace per la Terra Santa. È tornato l’incubo peggiore per gli ebrei israeliani. Il terrorismo. Quello che mette le famiglie nella condizione di mandare a scuola i figli in autobus diversi, perché in caso di attentato, uno dei due si salva. Ma stavolta non c’è stata esplosione, bensì violenza frontale, e in un luogo di culto. Ecco allora l’altro incubo, quello globale: l’odio fondamentalista, quell’Allah-u-Akbar (Dio è il più grande), che è sempre irrazionale e per questo difficilissimo da estirpare. È Gerusalemme, la città santa tra le sante ad essere colpita al cuore.

La sinagoga “Kehilat Yaakov”, nel quartiere ortodosso di Har Nof su Agassi Street, alle 7, ora della preghiera mattutina, di martedì 18 novembre, è stata attaccata da due uomini armati di pistole, asce e coltelli. Sei i morti finora accertati (mentre andiamo in stampa), dei feriti si sta ancora facendo la conta. I due attentatori sono stati uccisi dalla polizia. Sono i cugini Abu Jamal, Ghassan e Udayy, residenti a Gerusalemme est dopo essere stati rilasciati dalle prigioni israeliane nel 2011, in cambio della liberazione del soldato Gilad Shalit.

L’attentato è stato rivendicato dal Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (Fplp), con grande soddisfazione di Hamas, il movimento politico al potere nella Striscia di Gaza, che ha festeggiato. Per le due organizzazioni si tratta della risposta alla tensione che da giorni perdura sulla Spianata delle Moschee e all’uccisione – un suicidio secondo la polizia israeliana – di Yusuf Hasan al Ramuni, autista palestinese di una ditta israeliana, trovato morto impiccato nella notte fra domenica 16 e lunedì 17 novembre, nella zona industriale di Har Hotzvim, a Gerusalemme Ovest.

Nonostante il presidente palestinese, Abu Mazen, abbia condannato l’attentato, il premier israeliano Benyamin Netanyahu lo ha additato come responsabile assieme ad Hamas: «Incita all’odio contro di noi». E ha annunciato una dura reazione.

Quando l’emotività prevale, è facile perdere di vista il contesto. La Spianata delle Moschee è il terzo luogo santo dell’Islam (dopo Mecca e Medina), ma è anche il sito dove un tempo si ergevano i due templi ebraici citati dalla Bibbia, tanto che gli ebrei chiamano quel luogo Monte del Tempio. A Gerusalemme – come molti sanno – vige lo status quo che regola i diritti di proprietà e di accesso delle comunità cristiane per quanto attiene a tre santuari: Santo Sepolcro e Tomba di Maria a Gerusalemme, Basilica della Natività a Betlemme. Ciò che invece i più non sanno è che ne vige anche un altro: quello che vieta agli ebrei l’ascesa al Monte del tempio, dove oggi sorgono le moschee (per la cronaca, anche agli internazionali è vietato l’accesso). Ariel Sharon ha rotto l’accordo ultracentenario, con la famosa passeggiata del 2000, che ha dato fuoco alle polveri della seconda Intifada. Nelle ultime settimane, un’altra provocazione: esponenti politici di destra sono saliti sulla Spianata con l’intento di pregare, con il chiaro obiettivo di forzare il cambiamento di status quo (anche se Netanyahu ha già fatto sapere che lo status quo non si tocca). È evidente che la reazione – non giustificata, sia chiaro, la violenza va sempre condannata – sarebbe arrivata. Sperando che si fermi qui.

Bene ha fatto David Grossman, noto scrittore israeliano, intervistato da Fabio Scuto. inviato di Repubblica, a precisare: “Provo la stessa repulsione e lo stesso sgomento che provai vent’anni fa, quando nel febbraio 1994, Baruch Goldstein (da stimato fisico ebreo di Brooklyn a uomo ossessionato dalla rabbia per i palestinesi, “usurpatori della terra dei padri dell’Ebraismo”) assassinò a Hebron 29 fedeli musulmani nella moschea della Tomba dei patriarchi”, perché nell’eterno conflitto israelo-palestinese, si ha spesso l’impressione che i morti dell’una e dell’altra parte non abbiamo la stessa dignità.

La stampa nazionale in questi giorni sta pubblicando immagini brutali, con la Bibbia che gronda sangue, con i corpi massacrati dei rabbini. Noi abbiamo scelto di non farlo. Ci sembra che sia l’esatto contrario di ciò che serve per stemperare gli animi. Oggi cosa quantomai necessaria.

Ben vengano allora anche le dichiarazioni del segretario di Stato americano, John Kerry, che ha chiesto al presidente palestinese Abu Mazen di fermare l’incitamento alla violenza, e contestualmente a Tel Aviv di «porre fine alle incursioni alla Spianata delle moschee, alle provocazioni da parte dei coloni, e di certi ministri oltranzisti… è tempo (insomma) di porre fino all’occupazione israeliana dei Territori palestinesi». Perché il non c’è pace senza giustizia è ancor più vero nella terra dei tre monoteismi.

© 2014 Romina Gobbo

pubblicato su La Voce dei Berici – domenica 23 novembre 2014

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