«Ho fatto una cazzata», «O con me, o morta»: sono i mantra di chi ha ammazzato la propria compagna. Antonella come Roberta, Ofelia come Beatrice, Giovanna come Giuseppina, come Vanessa e Pamela, sono le vittime di femminicidio che vengono ricordate in questa mostra. Ma l’elenco potrebbe continuare a lungo. Le stime dicono che una donna ogni tre giorni muore per mano di un uomo, quasi sempre uno di famiglia. E questo nonostante una legge (la 93 del 14 agosto 2013), che considera un’aggravante l’esistenza di un legame sentimentale tra vittima e aggressore.
I giornali sono forvianti quando titolano: “Folle di gelosia”, “Omicidio passionale”, “Raptus”. Perché di solito, un marito che uccide la moglie, l’ha vessata per anni, e un ex che uccide “per gelosia” ha già ossessivamente perseguitato quella donna. Nella quasi totalità dei casi non si è di fronte ad una violenza che esplode inspiegabilmente, ma ad un percorso violento che raggiunge il suo apice. Il coltello che affonda dieci, venti, cento volte, oppure la testa sbattuta su superfici di marmo, le mani nude per percuotere, soffocare, strangolare, il sangue che schizza, il fuoco che “purifica”. Omicidi così efferati, dove è evidente la volontà di annientamento. È un Paese fermo al Medioevo, quello dove si punisce con il sangue una donna che “se l’è cercata”. Nel 1981 l’Italia ha abolito il delitto d’onore, ma evidentemente non ha potuto abolirlo dalle pance, dalla cultura e dalle menti.
© 2017 Romina Gobbo – introduzione al catalogo della mostra “Rose rosso sangue”