Vicenza rende omaggio a padre Komitas, padre della musica armena e martire

La violinista Sonig Tchakerian e la cantante Karina Oganjan (credits Luigi De Frenza)

Non manca mai un omaggio alla musica armena alle Settimane Musicali al Teatro Olimpico di Vicenza. E non potrebbe essere che così visto che la violinista Sonig  Tchakerian, che ha fondato il festival vicentino, è di origine e madrelingua armena, in Italia da quand’era bambina. «Radici riscoperte non nell’immediato ma da cui non posso prescindere perché hanno avuto molta influenza su di me». Sabato 3 giugno, l’apertura del Festival vicentino ha omaggiato con due canti, padre Komitas, al secolo Soghomon Gevorki Soghomonyan (Kütaya, Impero Ottomano 1889 – Parigi 1935), religioso, compositore, musicista e musicologo, considerato il padre della moderna musica armena, e apprezzato da nomi illustri quali Debussy e Stravinskij.

«A lui si deve un importantissimo lavoro di raccolta di antichi canti armeni, ma anche curdi, persiani e turchi – spiega Sonig –. Ha vissuto tra i pastori del Caucaso, è rimasto là, in silenzio, ad ascoltarli. E poi ha trascritto quei canti che erano tramandati solo oralmente, salvandoli dall’oblio e diffondendoli. Prima il recupero, poi naturalmente la rielaborazione. Sono musiche estremamente evocative, hanno un fascino antico, di riflessione, ci avvicinano molto al silenzio interiore, pur essendo nella musica. Il pubblico apprezza, si sente avvolto da questa armonia».

Canti d’amore, di nozze, per i funerali, di emigrazione, patriottici, vita quotidiana, lavoro nei campi, ninne-nanna, musica sacra: tutto questo è stato padre Komitas, il cui capolavoro fu la Divina Liturgia, che non riuscì a completare a causa dello scoppio della prima guerra mondiale, ma che è ancora oggi una delle musiche più utilizzate durante la messa della Chiesa apostolica armena. Nominato archimandrita, Komitas si trasferisce a Tiflis (in Georgia), ma la sua “apertura” al mondo non piace alla gerarchia ecclesiastica, così decide di emigrare a Costantinopoli. Anche lì non trova pace, perché i turchi si dimostrano sempre più infastiditi dal fatto che la sua fama internazionale possa risultare una cassa di risonanza della causa armena.

Nell’aprile del 1915 viene arrestato e deportato nell’ambito della prima parte di quello che sarà poi definito il genocidio armeno, e molti dei suoi manoscritti vengono distrutti. Pur riuscendo a tornare a Costantinopoli, grazie all’aiuto dell’ambasciatore degli Stati Uniti, Henry Morgenthau, Komitas resta segnato profondamente, nel corpo e nello spirito, da questa esperienza. In preda alla depressione, nel 1916 viene ricoverato nel santuario di Vil-Jouif a Parigi, dove muore il 22 ottobre 1935. Viene considerato uno dei martiri del genocidio. Le sue ceneri furono trasferite a Yerevan (capitale dell’Armenia), e sepolte nel Pantheon, dove riposa tra i grandi d’Armenia; il conservatorio porta il suo nome.

Sabato scorso all’Olimpico, la “padrona di casa”, Sonig Tchakerian, ha accompagnato con il violino la voce della cantante Karina Oganjan, anch’essa di origine armena. Sono state eseguite due brevi e intense composizioni: “Chinar es”,  una parola il cui significato non è del tutto chiaro, può voler dire albero, ma si usa anche come nome per le ragazze, e “Dle Yaman”, canzone forse armena, forse curda, che racconta di un uomo coraggioso, il cui canto d’amore è più un lamento, quindi molto nostalgico, molto commovente, anche perché qualcuno vi vide una metafora della storia armena.

«Sono arie estremamente semplici, quasi nude – riprende Sonig -; si prestano ad essere cantate, suonate con il violino, con il pianoforte, con il duduk (strumento musicale tradizionale armeno, ad ancia doppia, il cui suono accompagna quasi tutte le celebrazioni armene, gioiose o tristi che siano, ndr). Ci sono varie possibilità di farle rivivere. La musica di Komitas è sempre attuale, perché appartiene alla gente, al popolo, e non è mai uguale a sé stessa perché, inevitabilmente, nel tramandarla, subisce mutazioni».

C’è anche la ricerca del divino? «Certo, perché questi suoni aiutano a mettersi in contatto con la propria spiritualità. La ricerca del divino è la ricerca quotidiana di tutti».

Padre Komitas recupera testi di varia origine, anche turchi, a dimostrazione che la musica va oltre. «La musica è un linguaggio universale, che ci unisce, senza sapere perché. Se si sente suonare in mezzo alla strada, in una piazza, subito la gente si ferma, si crea un manipolo di persone. Gente che non si conosce, inizia a condividere uno stato d’animo, delle emozioni. È un modo un po’ misterioso di stare insieme, dove le anime si uniscono e le persone si ritrovano nell’intimità. È un linguaggio senza parole, quindi non ha confini, non esistono barriere, né culturali, né emotive, né politiche. La musica parla a tutti».

Lei come Komitas ha ereditato dalla famiglia l’amore per la musica. Da violinista di fama, qual è il suo rapporto con lo strumento? «Ci sono nata, ho sempre suonato fin da bambina. Non ho mai scelto che cosa fare da grande, ho sempre pensato che suonavo e basta. Me lo sono trovata come un regalo, spero di essermelo meritato».

© 2017 Romina Gobbo

pubblicato su famigliacristiana.it – mercoledì 7 giugno 2017

http://www.famigliacristiana.it/articolo/musica-di-komitas.aspx

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