Viviana Maria Rispoli. L’eremita che adotta chiese abbandonate

“Hai detto bene, non hai marito”. Le risuonano ancora forti nella testa e le arrossano gli occhi le parole che Gesù disse alla Samaritana. Le hanno trafitto il cuore come una “spada”, ma “di luce”, perché quella ferita le ha permesso di risorgere alla vita. “Se tu conoscessi chi è che ti sta domandando da bere, tu stessa gliene chiederesti”. «Ho capito che dovevo lasciare l’uomo con il quale convivevo, e che Gesù mi stava chiamando». Incontro Viviana Maria Rispoli nella “sua dimora”, a Savigno, in provincia di Bologna. Modella in gioventù, commerciante d’arte in età adulta e, oggi, a 58 anni, custode dell’antica pieve di San Giorgio, una chiesa altrimenti destinata all’abbandono. Ma la Casa del Signore va tenuta aperta, curata, amata. E l’apporto dei laici può essere prezioso, purché preparato, motivato. Da quest’intuizione, condivisa tra la Rispoli e il parroco, don Augusto Modena, è nato il progetto “Eremiti con san Francesco” (eremiti.net), ma non è distacco totale dal mondo, si potrebbe chiamare semi-eremitismo. Si tratta di laici che vivono vicino alle chiese, in solitudine o in piccoli gruppi, si nutrono della Parola di Dio, amano il creato, e sono uniti nella spiritualità. Lo spunto è il Vangelo, là dove dice: “Va’ e ripara la mia casa che cade in rovina”.

«Dopo la chiamata di Gesù, il mio primo pensiero fu di prendere i voti, ma poi scoprii che la mia vocazione era altra. L’incontro con un’eremita che viveva – e vive tuttora – in un posto sperduto, senza luce, sulle montagne di Spoleto, mi colpì profondamente. Provai una gioia incontenibile. Mi sembrava che quella donna avesse Dio tutto per sé e che quella sarebbe potuta essere anche la mia vita». Così il percorso si andava delineando. Viviana custodisce la pieve, accoglie i pellegrini, forma “potenziali eremiti”, è a disposizione di chi ha bisogno di una parola, di un rifugio, per una notte, o per una vita intera, ma la sua anima è solitaria e necessitava di un suo spazio più intimo. Ecco allora anche per lei una casupola essenziale sulle colline bolognesi, una stanza adibita a cappella dedicata alla Madonna di San Luca, un gatto e un pappagallo, chiamato Amore.

Viviana è l’eremita che non ti aspetti. Gonna e camicia nera, nero anche il foulard, annodato con lo stile delle donne ebree, che incornicia un viso dove rughe leggere raccontano di chi ha donato al Padre la sua sofferenza, una croce al collo e una al dito, ai piedi gli zoccoli con il tacco, che tengono ben ancorata alla terra lei che ama la vita contemplativa e la preghiera; nulla è lasciato al caso. Un residuo di vanità di cui – siamo certi – Gesù non se ne avrà a male, visto che è Lui che l’ha soccorsa. «Dopo aver messo per tre anni tutta me stessa in una relazione, e avendo scoperto che invece lui provava solo affetto amicale, soffrivo terribilmente, quasi desideravo morire. In quel momento di grande dolore e confusione, mi venne incontro questo passo: “Chi non odia anche la propria vita, non può essere mio discepolo”. Io odiavo la mia vita e mi sono detta che anche seguire Gesù, morendo alle proprie aspettative, ai propri progetti, alla propria volontà, era una risposta altrettanto forte al desiderio di morte che mi possedeva. Pensai che così la mia vita avrebbe potuto ancora avere un senso. Questo mi consolò molto, perché avevo trovato il “coraggio di suicidarmi in Cristo”», provocatorio titolo del suo libro. Intuita la meta, bisognava capire come raggiungerla. Viviana è nata a Città del Cairo da papà italiano e mamma egiziana. Chissà se avere radici in una terra che ha visto sorgere il monachesimo ha favorito la scelta eremitica. «La prima volta che ho sospettato dell’esistenza di Dio avevo dieci anni. Pensavo: io parlo, mi muovo, cammino, ma chi sono veramente? Sentivo che non potevo identificarmi solo con il mio corpo, e questo mistero mi emozionava, ma ci vollero ancora molti anni per cominciare a capire». Capire che in quel Vangelo ricevuto in dono a circa trent’anni, c’erano tutte le risposte. «Era il 1993 quando mi consacrai in forma privata, con un’adesione intima del cuore. Io, in chiesa da sola, all’altro capo del telefono il mio assistente spirituale mi dava la benedizione dal suo letto d’ospedale». Lo Spirito Santo soffia comunque. Mentre Viviana è immersa nella natura di una casa di campagna, si fa strada “l’idea di Dio”: «Come sarebbe bello se tutte le chiese fossero aperte e abitate da persone che amano il Signore!». Prima Monterenzio poi, nel 2010, Savigno, superando le difficoltà di essere donna, laica, additata per questa “stranezza” di voler vivere da sola, custode di edifici sacri considerati propri dalle comunità. «Ma è nella natura delle cose nuove. Oggi va molto meglio, abbiamo un accordo con la Curia per formare persone che vogliano intraprendere questo cammino. Non è semplice, molti arrivano, restano per un po’, non resistono, mollano, magari perché non riescono a staccarsi dalla famiglia. Io mi meraviglio che non ci sia un pienone perché il nostro è un progetto meraviglioso. C’è la bellezza del rapporto personale con il Signore, nella solitudine, nella preghiera e, allo stesso tempo, la forza di non essere completamente da solo, abbandonato, ma in unione spirituale con persone che hanno abbracciato la tua stessa vita, pur nella libertà di coltivare ciascuno il proprio carisma. E poi, come facevano nel passato gli eremiti, anche noi condividiamo alcuni momenti: pranziamo assieme la domenica, partecipiamo assieme alle santa messa, alle veglie…».

Ma è il silenzio – «base dell’ascolto del Signore» – il compagno fedele di Viviana. «All’asilo c’era una casina degli attrezzi con dentro solo una sedia. Mi piazzavo lì e stavo bene. Da ragazza andavo alle feste, ma cercavo un anfratto dove rifugiarmi». Erano i primi segnali. Ora c’è l’eremo in collina. Il futuro? «Il mio sogno sarebbe vivere nel deserto, d’altronde ce l’ho del sangue». Totalmente sola? «No, in una vacanza continua con Gesù».

 

© 2017 Romina Gobbo

pubblicato su Credere – domenica 27 agosto 2017

 

 

 

 

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