«Verona Minor Hierusalem – spiega don Martino Signoretto, vicario episcopale per la cultura, della diocesi di Verona – è prima di tutto una visione. Significa ripensare Verona secondo i criteri della Città celeste, la convivenza, la pace». Ha compiuto un anno il progetto “Verona Minor Hierusalem – Una città da valorizzare insieme”, teso a riscoprire il legame culturale, urbanistico e religioso fra la Terra Santa e la città scaligera. Un legame che viene da lotano. L’immagine di una “Verona piccola Gerusalemme” è ufficializzata negli Statuti veronesi del 1450, ma l’idea ha una tradizione più antica, risale all’epoca del prefetto dello Scriptorium Capitulare, l’arcidiacono Pacifico (IX secolo). Aveva redatto un dizionario dove parlava della città come se fosse stata fondata da Sem, figlio di Noè, con il nome di “Gerusalemme minore”. E i primi pellegrini veronesi di ritorno dalla Terra Santa vedevano in alcuni luoghi della loro città qualcosa che ricordava loro ciò che avevano appena visitato e vi costruirono dei luoghi di culto. Ma la memoria nei secoli a venire fu offuscata, finché non ha appassionato don Martino, innamorato della Terra Santa. Il progetto si è concretizzato con un primo itinerario “Rinascere dall’acqua. Verona al di là del fiume” – che è anche inserito nella Romea Strata -, dedicato a valorizzare un’area della città meno conosciuta, ubicata all’esterno dell’ansa sinistra dell’Adige, tra il quartiere Borgo Trento e quello di Anconetta. Coinvolge cinque chiese: San Giorgio in Braida, Santo Stefano, Santi Siro e Libera, San Giovanni in Valle, Santa Maria in Organo e la chiesetta di San Pietro Martire. In occasione del pellegrinaggio urbano mensile (che dà diritto alla credenziale in stile Santiago), diventano tappe anche le chiese di Santa Maria in Betlemme (oggi San Zeno in Monte) e Santa Maria di Nazaret. La grande risorsa di “Vrona Minor” è il volontariato. Gli 83mila visitatori di questo primo anno hanno trovato ad accoglierli oltre 840 volontari, di cui 400 giovani dell’alternanza scuola-lavoro. «E’ una comunità molto feconda – riprende don Martino -: ci sono studenti, ricercatori universitari, insegnanti di storia dell’arte, un patrimonio enorme di persone che mettono a disposizione i loro talenti, sotto il coordinamento di Paola Tessitore. La città sta rispondendo con interesse: c’è chi offre una sala, chi un rinfresco, chi attrezzature. Lo definirei un progetto generativo, un modello di valorizzazione del territorio che valorizza le persone. A questo proposito, fra i volontari abbiamo anche quattro detenuti, perché se ha una ricaduta sociale, è un progetto anche ecclesiale. E abbiamo anche una signora di religione ebraica, nella consapevolezza che il bene artistico unisce persone diverse. Il bene comune è terapeutico, e la bellezza salva».
© 2017 – Romina Gobbo
pubblicato su Avvenire – Catholica – domenica 31 dicembre 2017 – pag. 19