
Andrea Nante (foto Ugo Boato)
Quando l’artista parla di Dio, «parla anche della sua vita. Parte da un dato materiale – quello che siamo – per raccontare la trascendenza». Lo dice Andrea Nante, direttore del Museo diocesano di Padova che, fino al 24 giugno, ospita la nona edizione della rassegna d’illustrazione “I colori del sacro” (poi andrà itinerante per l’Italia), quest’anno dedicata al corpo, «uno dei punti centrali della nostra fede, se pensiamo al Dio incarnato». Delle 200 tavole pervenute dagli artisti, 75 sono quelle selezionate, per composizione, tecnica e originalità.
La riflessione che dà vita a questa mostra vuole andare oltre la questione religiosa strettamente intesa…
«In effetti non chiediamo agli illustratori di confrontarsi con un testo che parla di fede o che descrive un credo, ma di indagare il corpo dal punto di vista della percezione personale, delle sue trasformazioni nel tempo e nello spazio, delle sue relazioni, nel suo rapporto con il “sacro”. Perché il corpo è carne, ossa, muscoli, ma è anche pensiero, cuore, spiritualità».
Rappresentare un tema religioso specifico comporta dei rischi?
«Prendiamo il battesimo di Gesù: un artista che volesse riprodurlo, “rischia grosso”. Se non ha doti geniali, rischia di scivolare nell’iconografia tradizionale, senza contare il suo porsi a confronto con quanto quel tema o brano del Vangelo suscita in lui. In “I colori del sacro” comunque c’è una sezione dedicata alle Scritture e qui qualche volta registriamo delle difficoltà. Anche se stiamo parlando di artisti abituati a rappresentare un testo, davanti al testo sacro molti declinano, per la scarsa familiarità con un linguaggio simbolico, allegorico, qual è quello delle Scritture, che narra storie complesse, oppure perché la tradizione è stata così pesante che impedisce loro di staccarsene per produrre qualcosa di originale».
Fa la differenza se l’artista è persona di fede?
«È un approccio diverso, ma non meno interessante, perché sappiamo quanto siano tormentati il sentire, la ricerca, il credere di un artista».
San Giovanni Damasceno, cantore delle immagini sacre nell’VIII secolo, diceva ai cristiani: “Se un pagano viene e ti chiede di mostrargli la tua fede, portalo in chiesa e spiegagli i quadri sacri”. Vale anche per oggi?
«Credo che l’architettura, prima ancora delle arti decorative e delle arti figurative, abbia questo potere. Ti immette in una dimensione che risuona del mondo e dell’universo. Non è un caso che oggi si rifletta molto sullo spazio sacro. In questo tempo, l’architettura può dare un senso all’esistenza, anche alle periferie più degradate. E credo che proprio ad essa sia chiesto di interpretare il mondo, nel senso di mediazione con il trascendente».
Se l’architettura porta bellezza nelle periferie degradate, è perfettamente in linea con la via pulchritudine, la via della bellezza, così come intesa dal Dipartimento arte e fede del Pontificio consiglio della cultura, e dai Pontefici, da Paolo VI in poi…
«Io preferisco dire che l’arte, non la bellezza – parola inflazionata e a volte usata anche un po’ a sproposito – rende migliori, perché si tratta di un processo condotto da un artista, ma nel comunicare incontra un pubblico. Un’opera della Biennale può anche non essere bella, però magari fa riflettere. Parla di noi, del nostro vissuto, del dolore e dell’amore, suscita emozioni, interpreta i tormenti e le gioie dell’anima, e quindi fa scattare quella sintonia che ci spinge a dire “quest’opera è bella”, ma che in realtà significa “ci interessa”. Noi riconosciamo nella bellezza una categoria di gradimento, che non è solo estetico, ma è di congiunzione con l’opera stessa o con il messaggio che essa porta, e un messaggio c’è sempre. In questo senso, io credo che renda migliori».
Il messaggio dell’arte è un messaggio di perfezione?
«In mostra quest’anno abbiamo un’illustrazione con una bambina grassottella che si mette a danzare alla sbarra in mezzo ad altre coetanee, più alte, più longilinee. Poi c’è una bimba senza capelli che ha subito una chemioterapia e che dice: “Io sono sempre la stessa”. Qual è allora la perfezione? I bambini disegnano uomini con gambe troppo lunghe, e la testa sproporzionata. Il canone per il bambino non è la perfezione, ma la vitalità, comunque sia».
A “I colori del sacro” hanno partecipato artisti non solo italiani, ma anche americani, asiatici, africani… l’arte si mette al servizio del dialogo passando per la corporeità?
«Proponiamo un tema come il corpo innanzitutto perché è un soggetto con cui ci confrontiamo continuamente, non solo con il nostro, ma anche con quello degli altri; nella pubblicità, nei film, in televisione, ne abbiamo pieni gli occhi. E poi perché il corpo ce l’ho io, ce l’ha la persona che dice di non essere credente, ce l’ha la donna musulmana che lo copre… E quindi è un buon punto di comunione, di contatto fra religioni, ma anche fra credenti e non».
Provenienze diverse e quindi anche esperienze culturali diverse legate al sacro. Ma per chi non crede, il sacro che cos’è?
«È il contingente, il reale, e dal reale poi parte una ricerca per capire se veramente quello che vive, che vede, che gusta, che sente, non sia soltanto un caso».
San Giovanni Paolo II aveva eletto gli artisti a continuatori della creazione.
«Sono d’accordo. Se ne fossero convinti anche gli artisti, avrebbero di che tremare, ma al tempo stesso di che sentirsi orgogliosi, perché nobilitati».

L’illustrazione di Maria Sole Macchia intitolata Heart, una delle opere in mostra a “I colori del sacro”
© 2018 – Romina Gobbo
pubblicato su Credere – domenica 1 aprile 2018 – pagg. 50, 51, 52, 53