San Leopoldo Mandić. I devoti lo vogliono patrono dei malati – Devotees want him to patronize the sick

In un ordine di predicatori, lui non poteva predicare, perché era balbuziente. A causa della salute cagionevole, non poté andare missionario nelle sue terre, la Croazia, dove avrebbe voluto operare per la sua “vocatio personalis”, ovvero l’unità fra la Chiesa ortodossa d’Oriente e quella cattolica di Roma. Strascicava i piedi, le dita erano deformate dall’artrosi, il mal di stomaco era perenne. Alto un metro e 35 centimetri, voleva passare nella vita come un’ombra, ma nel 1983 Giovanni Paolo II lo ha proclamato santo, “esponendolo” così alla venerazione. E papa Francesco ne ha voluto le spoglie mortali (insieme a quelle di san Pio da Pietrelcina) in San Pietro, in occasione del Giubileo della misericordia. Tutto questo ha incrementato il numero dei devoti, e sono proprio loro che oggi chiedono a gran voce che san Leopoldo Mandić sia dichiarato patrono dei malati di tumore.

SOSTEGNO PER I MALATI

L’urna di san Leopoldo circondata dai fedeli

Già negli anni Ottanta, un’associazione carrarese si era attivata, riuscendo a raccogliere 13mila firme e a inoltrarle a Roma. Quell’iniziativa, che all’epoca non sortì alcun effetto, ha trovato nuova vitalità, grazie anche all’approvazione del vescovo di Padova, Claudio Cipolla, e al parere positivo della Conferenza episcopale triveneta e di quella croata. Fra Mauro Jöhri, ministro generale dell’ordine dei frati Cappuccini, il 2 dicembre 2017, ha presentato domanda al cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza episcopale italiana. «La richiesta – spiega padre Flaiano Gusella, rettore del santuario di San Leopoldo a Padova – si basa sul fatto che padre Leopoldo è sempre stato vicino al mondo della malattia, sia ai pazienti che a medici e operatori sanitari. Poi c’è che egli stesso è morto di tumore all’esofago ma, allo stesso tempo, c’è anche, da parte nostra, il desiderio di poter offrire a quanti soffrono il sostegno spirituale di una figura che ha provato sulla sua pelle le limitazioni della malattia e che ha dimostrato che la fede aiuta ad affrontare anche le malattie incurabili. Dal cielo padre Leopoldo può comprendere le preghiere dei malati, sublimarle, e anche intercedere – se il Signore lo volesse – per il recupero della salute. Sono molte le persone che ci raccontano di aver ottenuto, per sua intercessione, la guarigione. Certo, qui entriamo nell’ambito del mistero, però è evidente che per loro lui è già il patrono. Come richiestoci dalla Cei, da gennaio abbiamo iniziato a raccogliere nuove firme, posizionando banchetti sia all’ingresso del santuario che in molte parrocchie, e siamo già arrivati a seimila. La petizione – per il momento divulgata nel Triveneto – avrà presto diffusione nazionale. Poi dipenderà dalla libera scelta dei vescovi e dalla prudenza pastorale. Intanto l’iniziativa ha suscitato un risveglio di responsabilità nei confronti di chi è malato, nella consapevolezza che tutti prima o poi ci troviamo a confrontarci con la fragilità del nostro corpo».

IL SANTO CONFESSORE

Leopoldo Mandić, il «santo confessore», al secolo Bogdan Ivan Mandić, era nato il 12 maggio 1866, nell’attuale Croazia, a Castelnuovo di Cattaro, allora provincia di Dalmazia, e parte dell’Impero austro-ungarico. Penultimo di sedici figli, entrò adolescente nei Cappuccini; fu ordinato sacerdote nel 1890. Nel convento di Padova, in Santa Croce, trascorse gran parte della vita, confessando, nella sua celletta, anche per quindici ore al giorno, dalla madre di famiglia al docente universitario, all’artigiano. Seppur ingobbito, si caricava sulle spalle le sofferenze delle persone che gli si rivolgevano e ne esplicava le penitenze. Giorno dopo giorno la gente riversava su di lui i propri tormenti, l’angoscia, i limiti. «Padre Leopoldo offriva tutto al Signore», riprende fra Gusella. «Ma non ha mia chiesto che gli venisse “allontanato il calice”, soltanto che la malattia non fermasse la sua attività. Ad aprile 1942 fu ricoverato in ospedale perché si era aggravato; a maggio tornò in convento, dove visse altri tre mesi, fino al 30 luglio, quando spirò. Ha speso anche le ultime forze nel confessionale. L’ultimo giorno della sua vita ha confessato cinquanta persone nella stanza dell’infermeria del convento. Un incentivo per chi è ammalato a non lasciarsi andare, a lottare, a continuare a vivere una vita di significato». In vita, padre Leopoldo aveva operato poche volte fuori dall’Italia: tre anni a Zara, un anno a Capodistria e un mese a Fiume. Dopo la morte, ha ripreso a viaggiare. Nel 2016, l’urna è stata portata nella cattedrale di Zagabria dove, in una settimana, è stata visitata da 250 mila persone. A settembre 2017, è «tornata nel luogo natìo», a Cattaro. E poi ancora in giro per la Croazia, esposta giorno e notte. È significativo che il trasporto sia curato dalla Croce Verde di Padova, che ha appositamente attrezzato un’ambulanza. E, d’altra parte, papa Francesco paragona la Chiesa a un ospedale da campo. «In “quest’albero monco senza rami”», come disse Giovanni Paolo II, «il Signore ha acceso un fuoco straordinario. Egli usa gli strumenti fragili per operare i prodigi del suo amore».

© 2018  – Romina Gobbo

pubblicato su Credere – domenica 29 aprile 2018 – pagg. 29, 30, 31

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