«Non possiamo scappare dal Venerdì Santo. Dobbiamo permettere a questi ragazzi di risorgere». Va dritto al punto il quarantaduenne don Luca Favarin, formatosi prima nelle missioni africane, tra i lebbrosi e le epidemie di colera, a poi alla “scuola della strada” di don Benzi, e impegnato nell’accoglienza ai migranti. Il prete padovano fa parlare di sé per la forza con la quale persegue il messaggio evangelico, che è prima di tutto essere a servizio dei poveri, che siano detenuti, donne vittime di tratta, persone senza fissa dimora, migranti appunto, o chiunque altro sia ai margini della società. Ma è soprattutto “scomodo” per le sue prese di posizione radicali. «L’impegno con i poveri non lo si assolve pregando, bisogna condividere la vita. Il Padre Nostro e l’Ave Maria hanno senso quando sono incastonati nella concretezza della quotidianità, altrimenti siamo dei bla bla bla religiosi. Passiamo la vita a recitare preghiere, invece di viverle. I poveri ci aiutano a fare il passaggio dalla recitazione alla vita. Non è facile, a volte veniamo derisi, additati, perché la nostra attività dà fastidio. Ma non possiamo non accogliere, non possiamo non vivere con serietà questa tematica, altrimenti non siamo credibili come cristiani. Siamo schizofrenici: in chiesa prego, fuori odio».

Don Luca con gli operatori
Don Luca nel 2014 ha fondato la onlus Percorso vita per cercare di dare risposte a questa società. È costituita da un gruppo di persone che hanno fatto dell’accompagnamento delle realtà di emarginazione una scelta di vita. Da un inizio focalizzato sui minori stranieri non accompagnati, che avrà il suo coronamento con la realizzazione di un grande villaggio all’interno della città di Padova, ci si è aperti anche agli adulti. «Il nostro vantaggio è che conoscevamo sia la strada, dalla quale i migranti quasi sempre passano, sia l’Africa. Ci siamo posti nell’accoglienza, con l’obiettivo di prendere le distanze dalla polarizzazione che vede da una parte chi nega il migrante e, dall’altra, chi coltiva un atteggiamento di assistenzialismo. Abbiamo cercato di costruire una terza via, basata sulla giustizia. Si accolgono queste persone perché è giusto farlo. Questo si traduce in un rapporto molto chiaro con i ragazzi: tu sei qua non per mangiare, dormire e ricevere e basta, ma per poter essere artefice della tua vita e del tuo futuro. Tutto funziona se da parte loro c’è la volontà di impegnarsi a diventare autonomi».
ALTOLA’ ALL’ASSISTENZIALISMO
Percorso vita gestisce nove strutture di accoglienza, di cui una femminile e otto maschili con, al momento, 150 persone, al 90% africani sub-sahariani. Gestisce anche un bar e un ristorante dove i migranti lavorano come chef, camerieri e sommelier, e che ha fatto della qualità dei cibi e dei vini il suo marchio. «Si chiama Strada facendo per sottolineare che non abbiamo ricette, i percorsi di vita sono sempre difficili, complessi. I nostri ragazzi hanno vissuto situazioni traumatiche, molti sono stati detenuti in Libia, percossi con le scariche elettriche: da noi sono chiamati a impegnarsi in una professione per la quale vengono formati. Questo ridà loro dignità. Persone che nel loro paese facevano i muratori, gli stradini, i giardinieri, quando vengono accolte nelle parrocchie spesso si ritrovano a fare la collanina per il mercatino. Può andare bene per un giorno. Al ragazzo che arriva da noi spieghiamo subito che non sarà per sempre, ma solo per un tempo giusto che gli permetterà di camminare con le sue gambe». Secondo don Favarin «l’uomo della strada vuole essere trattato da uomo»: «I ragazzi vanno valorizzati, però, se sbagliano, è mio dovere anche dire loro che hanno sbagliato e accompagnarli nella comprensione dell’errore. La serietà è che io ti tratto da uomo, non da bambino, e neanche da poveraccio che deve tendere la mano». Il sacerdote ha appena scritto un libro, Animali da circo: «La gente vorrebbe che i migranti fossero così, buoni e obbedienti. Al ristorante all’inizio facevano un appaluso ai ragazzi che avevano servito bene a tavola: odioso. Purtroppo l’atteggiamento verso i poveri da parte delle comunità cristiane spesso è questo».
DIO, LA CHIESA E IL SOCIALE
C’è chi dice che il “sociale” va lasciato alle associazioni, la Chiesa deve occuparsi di Dio. «Questa è una bestemmia. Se Dio “avesse fatto Dio” non si sarebbe incarnato. Distinguere continuamente la Chiesa dentro la sacrestia, dentro le mura dove c’e l’incenso, dalla strada, voler ostinatamente continuare a separare culto e vita, fede celebrata e fede vissuta, ha stancato, non è più significativo, non parla più al mondo». Per don Favarin «l’unica scelta possibile è quella dei poveri»: «Significa che teologicamente è corretto pensare che il cristiano è talmente centrato verso l’altro, verso il povero, verso chi è nel bisogno, che poi Dio si occupa di lui. Questo si traduce in un atteggiamento molto semplice: nel momento in cui c’è il migrante in mezzo al mare, che sta annegando, io lo tiro su, non mi pongo alcun problema, se non quello di salvarlo. Come cristiani noi siamo testimoni di vita, siamo custodi di vita, o ci crediamo, o non ci crediamo». È la logica dell’Incarnazione, «della farina mescolata, è lo stile di vita che parla di Dio», spiega ancora il sacerdote. «C’è paura? Sì, ma la si affronta. Fa paura scendere in strada? Sì. Fa paura andare sulla banchina del Mediterraneo a salvare vite? Sì. Però è cristiano, è evangelico».
© 2018 Testo di Romina Gobbo – Foto di Beatrice Mancini
pubblicato su Credere – domenica 29 luglio 2018 – n. 30 – anno VI – pagg. 15-19

Romina Gobbo con don Luca Favarin e i “suoi” ragazzi

Il libro “Animali da circo”.
Alcuni lettori potrebbero essere presi in “contropiede” dalla franchezza di don Luca Favarin, ma il suo libro Animali da circo “San Paolo, 2018) contiene spunti di riflessione che non possono lasciare indifferenti. Il volume si apre con la prefazione di Gad Lerner