«Dopo qualche minuto, anche noi cominciammo a puzzare di morto». I giornalisti Robert Fisk, Bill Foley, Loren Jenkins, Karsten Tveit, Mimmo Candito e pochi altri sono i primi ad entrare nel campo profughi di Sabra e Shatila – «uno sterminato puzzolente cimitero all’aperto» (Candito) – alla periferia ovest di Beirut. E trovano l’orrore, quello che non ti immagini neppure nei tuoi incubi peggiori. «Furono le mosche a farcelo capire – raccontò Fisk -. Erano milioni e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l’odore. Grosse come mosconi, all’inizio ci coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti (…). Parlammo molto poco perché le mosche si avventavano infallibilmente sulle nostre bocche. Per questo motivo ci tenevamo sopra un fazzoletto, poi ci coprimmo anche il naso perché le mosche si spostavano su tutta la faccia. Se a Sidone l’odore dei cadaveri era stato nauseante, il fetore di Shatila ci faceva vomitare».
Migliaia di cadaveri di palestinesi e sciiti libanesi giacevano trucidati, sventrati, sgozzati. La Croce Rossa Internazionale contò 2.750 morti, ma probabilmente furono di più. All’inizio non era chiaro chi avesse perpetrato la strage – dal 15 al 18 settembre – finché alcuni sopravvissuti cominciarono a parlare e accusarono le milizie cristiano-falangiste libanesi e l’Esercito del sud, con la complicità dell’esercito israeliano, all’epoca guidato dal ministro della Difesa Ariel Sharon. Israele aveva lanciato la sua operazione “Pace in Galilea” invadendo, per la seconda volta, il Libano. L’Onu bolla l’azione come genocidio. Sharon viene condannato, lascia l’uniforme, ma poi diventerà capo del governo.
© 2018 Romina Gobbo – Facebook 18 settembre 2018