Oggi vi regalo un pezzettino della mia vita.
Per anni ho viaggiato in terre difficili, in gergo giornalistico si chiamano “aree di crisi”, là dove la stabilità è un filo sottile. Basta un nonnulla per travolgerla. Un giorno va tutto bene, il giorno dopo c’è un colpo di stato, un’alluvione, uno scontro a fuoco, il colera, una siccità che crepa il terreno. Eppure l’alba sorge sempre. Sorge sulle bellezze come sulle brutture della vita. Poi le aree di crisi sono diventate paesi in guerra. Perché il sacro fuoco brucia dentro fino a diventare un incendio. Allora bisogna spingersi un po’ più in là. Afghanistan, 31 dicembre 2011, quelli che sentiamo non sono fuochi d’artificio, sono razzi. C’è il coprifuoco. Festeggiamo il nuovo anno senza clamori, senza eccessi, nel buio assoluto. Eppure è uno dei momenti più intensi della mia vita. Sud Sudan, Yuba, maggio 2011, il sud cristiano si prepara a festeggiare l’indipendenza dal nord musulmano. C’è aria di festa e di ricostruzione. Serviranno strade per far transitare le autorità che arriveranno da tutto il mondo. Fino a ieri a farla da padrone era il fango, oggi il cemento sta coprendo le ferite di un popolo in guerra da quarant’anni. Basterà? La tensione è palpabile. L’indipendenza è sangue, e non è detto che poi metta tutti d’accordo. Scoppia un tafferuglio, è guerriglia. Migliaia di sfollati si riversano nelle strade. Scappano da un nemico che non ha mai un solo nome. Noi veniamo evacuati. L’aereo parte due ore prima. E quel Paese ancora non trova pace. Poi ci sono bambini, tanti bambini. E io assieme a loro. L’Africa è soprattutto questo: bambini. Per molti sono bambini con le mosche agli occhi e le pance gonfie, per me sono bambini con i loro sorrisi, con la loro voglia di futuro nonostante l’infanzia negata.
© 2018 Romina Gobbo – Facebook 5 ottobre 2018