Apro le porte ai bisogni della gente – I open the doors to people’s needs

Da Roma città aperta» a «Roma chiesa aperta». «Ma se entrano i barboni?». Era questa l’obiezione che i parrocchiani più conservatori facevano a don Francesco Pesce quando, otto anni fa, diventato parroco della chiesa di Santa Maria ai Monti, nel rione romano omonimo – di giorno zona di uffici, di notte, zona della “movida” –, scelse di lasciare aperta la chiesa dalle 7.30 alle 22, «in segno di accoglienza», affinché chiunque, in qualsiasi momento, potesse entrare: per la Messa, per una preghiera, per farsi il segno della croce, per ammirare gli affreschi… per sostare e basta. Questa chiesa, che è anche santuario mariano, non solo è protetta dall’immagine della Vergine con Bambino, collocata sull’altare maggiore, a seguito di eventi prodigiosi avvenuti nella seconda metà del 1500. È protetta anche dal «vagabondo di Dio», un clochard innalzato agli onori degli altari, l’8 dicembre 1881 da papa Leone XIII. Benedetto Giuseppe Labre, di origini francesi, morto nel 1783 fuori della chiesa, e sepolto nel transetto sinistro, sotto un altare. La sua tomba è venerata. Gli stracci che indossava sono diventati reliquie. «Dormiva sotto un’arcata del Colosseo, vivendo di offerte», spiega don Francesco. «Il suo bagaglio era costituito da Vangelo, breviario, il libro L’imitazione di Cristo e un rosario che portava al collo. Era un mistico, ma per la gente era solo un “pulciaro”. I barboni qui entrano per chiedere l’elemosina, poi si inginocchiano davanti a lui e lo pregano. Non sappiamo che cosa ci sia nella loro testa, quale sia stata la loro vita, ma sono anime belle. I poveri sono la “porta della Chiesa”, perché ti rivelano chi è Dio. Noi però dobbiamo ricordarci di farli entrare».

NELLA VITA DEL QUARTIERE

A fare buona guardia ci pensano negozianti, vicini e volontari. «Vengono a dare un’occhiata se è tutto a posto, abbeverano i fiori, puliscono, preparano l’altare. Finora, non è mai successo nulla. Tutto il rione “abbraccia” la sua chiesa». E don Francesco “abbraccia” i suoi parrocchiani. Lo si trova nella piazzetta, al bar, in gelateria. «Il prete deve stare per strada», dice. «Il dialogo a tu per tu funziona. Si può parlare di tutto, dal calcio – parola di juventino in mezzo ai romanisti – alla fede. In ogni famiglia, si nasce e si muore: al prete si chiede perché. Ed egli risponde come può, a volte tace, ma sempre accompagna la gioia e il dolore delle persone. Quella di papa Francesco è la Chiesa della presenza e accoglie tutti, anche i non credenti, perché anche loro sono parrocchia, sono popolo di Dio. Vanno incontrati e ascoltati».
Il rione Monti è il più antico di Roma. Precisa don Francesco: «Qui è nato Giulio Cesare. È frequentato da tre tipi di popolazione. Ci sono le vecchie famiglie romane residenti, ci sono professionisti e politici che qui lavorano – questa è zona di uffici e quartieri generali di grosse organizzazioni, c’è la Banca d’Italia – e infine ci sono i ragazzi che la sera escono a divertirsi. Non tutti entrano per pregare, ma tutti entrano».

OMELIE DI UN MINUTO

Essere «Chiesa in uscita» – come dice papa Francesco –, per don Pesce è anche voluto dire cambiare gli orari delle Messe. Una richiesta venuta dalla “base”. «Ho fissato la celebrazione feriale alle 13.15. È una Messa “secca”, un minuto di omelia. La gente alle 13.45 è fuori, può mangiarsi un panino e tornare a lavorare». Che cosa si dice in un minuto di omelia? «Si può dire tutto. La Parola di Dio è sempre la guida, perché è veramente diversa. Non ha bisogno di particolare arte. Sta in piedi da sola. Basta che il sacerdote cerchi di interpretarla bene, attualizzandola e contestualizzandola nella situazione odierna».

La Messa all’ora di pranzo è appannaggio dei lavoratori, mentre la sera il popolo di Dio cambia aspetto.«Il venerdì e il sabato resto in chiesa ad aspettare i giovani. Ragazze truccate, in minigonna, pronte per andare a ballare, entrano, fanno il segno della croce, accendono una candela, recitano una preghiera. Qualcuno vuole confessarsi. Spesso è solo voglia di raccontarsi. Io ascolto. Mi dicono di essere attratti dal messaggio della Chiesa grazie a papa Francesco, percepito come credibile. Lui ha riavvicinato alla Chiesa l’uomo vero, l’uomo contemporaneo. Nessuno si sente escluso, o di serie B. Anche chi non frequenta da anni, anche a chi il matrimonio è andato male, chi è caduto… Tutti sentono che c’è sempre la possibilità di rialzarsi e riprendere il cammino».

NESSUNO LASCIATO DA SOLO

La domenica le Messe abbondano, ma le più partecipate sono quelle serali, delle 19 e delle 21. «Intercettano chi si è gustato la giornata al mare, oppure gli amici che escono a cena. Bisogna andare loro incontro». C’è chi dice che la Chiesa non si può piegare alle esigenze di ciascuno, è giusto? «La Chiesa vive della presenza di Gesù. E Gesù non si è piegato? La Chiesa va incontro e si piega, ma poi non sta zitta, ha la sua parola e la dice. Ma è la parola della misericordia, non quella dei tagliatori di teste, come certuni vorrebbero». Nella canonica il prete ospita immigrati. Apertura totale da parte sua. «Nel 2015 ho ricavato un appartamentino per poter ospitare chi è in difficoltà. Sono transitate una quindicina di donne, per lo più nordafricane e musulmane. Anche loro pregano per papa Francesco, riconoscono che, se sono qui, è anche per la sua parola di accoglienza. Grazie a questa bella esperienza, la comunità è cresciuta molto. Perché quando guardi negli occhi le persone, ne percepisci la sofferenza, capisci che la vita è più forte della paura. Questa immigrazione è una manifestazione di Dio, che ci ricorda di non lasciare indietro nessuno».

Era il 2016. Scossa di terremoto. La canonica trema. Dall’altra parte del muro, c’è la stanza condivisa fra una cristiana e una musulmana. Il parroco accorre. Apre la porta. Davanti a lui, la musulmana, inginocchiata, prega rivolta alla Mecca, mentre la cristiana sgrana il rosario. «Questo è il dialogo della vita», conclude don Pesce.

© Tesi di Romina Gobbo – Foto di Stefano dal Pozzolo/Contrasto

pubblicato su Credere – domenica 2 dicembre 2018 – pagg. 30, 31, 32, 33

 

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