Dal 4 aprile in Libia si sta consumando una guerra fra le due forze militari più grandi del paese – da una parte i combattenti che stanno con il generale Khalifa Haftar, dall’altra quelli che stanno con Fayez al Serraj, capo del cosiddetto governo di Accordo nazionale – che avrà come conseguenza un’altra crisi umanitaria. Secondo le stime dell’Unhcr ci sono già oltre 18.000 sfollati, di cui 7.200 bambini. Siamo talmente abituati a sentire parlare di “crisi umanitaria” – in Siria, nello Yemen, in Sud Sudan… -, che ne siamo assuefatti e non ci ricordiamo che significa persone a rischio di morte per fame, spesso perché quando c’è un conflitto armato in corso, non è possibile per le organizzazioni di aiuto raggiungere i civili. Ci sono poi 3.600 migranti nei centri di detenzione più a rischio perché situati nelle zone di combattimento. La conseguenza più immediata è una fuga in massa dalla Libia verso le nostre coste. Ma ce n’è un’altra, tipica dei Paesi nel caos, l’avanzata delle organizzazioni jihadiste. Perché se è vero che la perdita di territorio della cellula Isis che si era insediata in Libia è andata di pari passo con la fine del califfato siro-iracheno, è anche vero che molti miliziani sono ancora presenti in clandestinità: cellule dormienti pronte a riattivarsi e a provocare attentati all’arrivo di qualche input. Così come potrebbe essere ancora presente al-Qaeda attraverso l’organizzazione Ansar al-Sharia al cui scioglimento – dalla stessa annunciato nel 2017 – pochi credono.
© 2019 Romina Gobbo – Facebook 17 aprile 2019