«A servizio in mezzo alla gente, giacca e cravatta come paramenti» – «In service among the people, jacket and tie as vestments»

«Il diacono è il prete della strada». E di strada Giuseppe Creazza ne ha percorsa parecchia – anche in senso letterale – nei suoi 81 anni di vita. A cominciare da quella che da Vicenza, dov’è nato, e dove ha cominciato a frequentare l’Istituto San Gaetano, dapprima come studente, poi come insegnante ed educatore, lo ha portato a Crotone, in Calabria – prima esperienza missionaria della Congregazione – a servizio dei giovani di un quartiere emarginato. E lì, a 31 anni, è stato ordinato diacono il 19 marzo 1969 dall’allora vescovo Pietro Raimondi. Il Concilio Vaticano II aveva ripristinato il diaconato permanente, e don Ottorino Zanon, fondatore della Pia Società San Gaetano di Vicenza, e grande sostenitore di questo ministero, si muove subito per portare a compimento la realizzazione delle ordinazioni diaconali di quelli che chiamava i suoi “assistenti”, ma che in realtà aveva già preparato per essere diaconi. Ed è così che Giuseppe Creazza diventa l’ottavo diacono della Chiesa italiana, preceduto da altri sette ordinati a Vicenza il 22 gennaio dal vescovo Carlo Zinato. «A determinare la mia vocazione alla vita religiosa e al diaconato – che per me è una vocazione rivoluzionaria – sono state la vita e la figura del nostro fondatore, un profeta. Era un prete felice, semplice, vicino alla gente, ai poveri. Non era un teologo, tutti lo capivano, parlava con la lingua del quotidiano». Ma la strada più lunga è quella che a 48 anni ha condotto Creazza in Guatemala – «l’ho considerato uno scherzo di Dio, un salto mortale, ma vitale» – dov’è rimasto 32 anni, ancora una volta a servizio dei giovani. «Lì soprattutto ho sperimentato una Chiesa in uscita. Il diacono è colui che porta Gesù “fuori dal tempio”, lo porta negli ambienti di lavoro, nelle famiglie, nei luoghi di aggregazione, là dove l’uomo trascorre la sua vita. Il verbo che più mi piace perché definisce il mio essere diacono è stare, che viene prima del fare. I miei paramenti sacri sono la giacca e la cravatta, il mio altare il quotidiano. In guatemala ho servito una parrocchia di 60mila abitanti, di cui 15mila giovani dai 10 ai 18 anni. Povertà, fame, droga, violenza, mancanza di lavoro, ragazze incinte a 14 anni. Solo passare per le strade era un modo per ascoltare il grido di tutti questi bisogni. Fin dai primi anni del mio servizio con i giovani mi sono sentito padre, madre, fratello, zio, nonno. Bisogna prima di tutto ascoltarli e si possono far crescere “fiori dagli immondezzai”. La mia esperienza diaconale è soprattutto passione per la vita, voglia di rendere il mondo un posto migliore dove gli uomini si riconoscano come fratelli». Ecco il grande progetto di «un gigante di poca altezza», come lo ha soprannominato una ragazza guatemalteca, al momento del rientro di Creazza in Italia lo scorso anno; era la lettera di saluto di una “sconosciuta con la quale parlasti, e che per la prima volta si è sentita vista”.

Da sinistra: don Luciano Bertelli e il diacono Giuseppe Creazza (credits RG)

© 2016 Foto e testo di Romina Gobbo

pubblicato su Avvenire, Catholica – giovedì 1 agosto 2019 – pag. 18

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