«Libertà, leggerezza, silenzio e contemplazione»: è quello che si prova dopo aver raggiunto la cima di un 8.000, spiega Mario Vielmo, classe 1964, originario di Lonigo (Vicenza), alpinista di fama internazionale. Lo scorso 17 luglio, assieme alla peruviana Graziella Flor, ha raggiunto la cresta principale del Broad Peak, situata al confine tra Cina e Pakistan, nella catena del Karakorum, 8.047 metri sul livello del mare. Sono così 12 gli Ottomila scalati da Vielmo, anche se lui preferisce contarne 11, perché dello Shisha Pangma non raggiunse la vetta principale. Dopo gli acclimatamenti ai campi base, “doppiare” il Broad Peak ha significato 18 ore di scalata continua, dalle 4.40 del mattino a circa le 16. «Sono stato fortunato perché le previsioni meteo erano favorevoli». In linguaggio alpinistico significa che la temperatura può anche essere 25 o 30 gradi sotto lo zero, purché non ci sia troppo vento. «Il vento disperde il calore corporeo ed è più facile subire congelamenti. Io invece me la sono cavata con un po’ di parestesia ai piedi». Vielmo scala senza ossigeno e stavolta anche senza l’apporto di sherpa. Per questo si definisce un “purista”. «Salire con l’ossigeno è un grosso aiuto – non serve acclimatamento, non senti la fatica, non rischi il congelamento -, ma io lo considero eticamente sbagliato. Il bello è assaporare l’aria sottile e salire con le proprie energie, assaporare a pieno la natura che ti circonda». La passione per la montagna ha accompagnato Mario fin da piccolo, iniziato allo sci da papà Giovanni. Proprio la foto di papà – mancato da poco – capeggiava nella tenda del celebre alpinista nel 2015, quando è miracolosamente scampato alla valanga scatenata dal terremoto che colpì il Nepal. Fin dagli esordi, Mario ha unito lo sport alla solidarietà: nel 2006 portò con sé in vetta al Makalu la fiaccola olimpica di Torino 2006, con un messaggio del Dalai Lama di fratellanza e unione tra i popoli, e un augurio rivolto alla Cina per un Tibet libero e autonomo. A seguito del terremoto in Nepal, la sua attività di testimonianza si è intensificata, con l’aiuto alle popolazioni più povere, grazie alla collaborazione con l’associazione Sidare onlus (Progetto Due su Seimila), che si propone di costruire scuole nei villaggi più sperduti e colpiti dal sisma; una sarà inaugurata il prossimo novembre. Questa volta Mario ha portato con sé e piantato sulla cima del Broad Peak la bandiera di “Parent Project”, l’organizzazione italiana di genitori con figli affetti da distrofia muscolare di Duchenne e Becker. Diciotto ore di fatica estrema, uno sguardo attorno e un pensiero ai tanti amici alpinisti scomparsi negli anni. Una contemplazione che dura dai 15 minuti ad una mezz’ora al massimo, perché bisogna scendere prima che sopraggiunga la notte. Un tempo brevissimo. «Ma ne vale la pena. Quello che si vede da lassù non ha eguali».
© 2019 Romina Gobbo
pubblicato su Avvenire – Agorà – giovedì 15 agosto 2019 – pag. 22