DW(ITALIA).«Spazi di transito e di attesa, i campi si organizzano come “città”, senza per questo essere dotati di un progetto urbano»: così il francese Michel Agier, antropologo e ricercatore presso l’Istituto italiano di ricerca per lo sviluppo (IRD), definisce i campi profughi. Una realtà nata nel 1948, con la diaspora dei palestinesi, a seguito della nascita dello Stato di Israele. Sono sparsi in tutto il Medio Oriente, altri sono nati nel 1967, con il secondo esodo, conseguenza della sconfitta degli arabi nella guerra dei sei giorni. Hanno ospitato complessivamente milioni di profughi, ci sono persone nate, vissute e morte dentro i confini dei campi, e siamo ormai alla quarta, quinta generazione. Ma anche se la speranza del “ritorno” ormai si è affievolita, quando arrivai all’ingresso dell’Aida Camp di Betlemme un’enorme chiave mi accolse, un simbolo nostalgico ad imperitura memoria.
In tutti questi decenni, non solo la demografia ha visto un’evoluzione, ma anche gli spazi urbani, l’edilizia, l’organizzazione sanitaria, lavorativa, scolastica e sociale. Perché i campi non sono più, appunto, “spazi di transito”, com’erano stati concepiti dall’UNRWA (Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione) nel 1948, bensì luoghi di vita continuativi. Nati per gestire situazioni di crisi, hanno poi assunto carattere di permanenza.
Gradatamente le tende diventano case, sorgono città nelle città. Perché si cerca di reagire alla costrizione all’esilio con una parvenza di vita normale. Per quanto riguarda i palestinesi, la precarietà è diventata sempre più residenzialità. Ma nuovi conflitti, nuove calamità, e anche l’intensificarsi di eventi estremi a causa dell’innalzamento del riscaldamento globale, hanno costretto altre popolazioni a spostarsi, sia all’interno del proprio Stato – si parla allora di sfollati -, sia fuori – ecco allora i profughi -. Per i quali la nuova meta diventa definitiva dopo vari spostamenti. Il futuro vicino invece sono i campi. Perché quando la tua casa viene bombardata, e tu devi scappare, ovviamente la questione contingente è trovare un posto dove non cadano bombe. Da questo punto di vista, i campi sono “la salvezza”. All’inizio sono improvvisati. Mano a mano che la gente arriva, l’agglomerato cresce e crescono anche i problemi di igiene, carenza di acqua potabile, urbanizzazione incontrollata, microcriminalità, disoccupazione, densità abitativa massima. La sicurezza dei più vulnerabili – donne, bambini, anziani, malati – è precaria, e spesso i trafficanti di esseri umani vengono qui a rifornire i propri “magazzini”. Fin dagli anni Sessanta, i gruppi paramilitari li hanno usati come centri di reclutamento. E le varie mafie reclutano giovani che nulla hanno da perdere. C’è un altro problema. Stiamo parlando di luoghi “extraterritoriali”, perché raramente i campi hanno potuto integrarsi nel tessuto urbano, diventando di fatto dei quartieri, come Ain al-Hilweh, in Libano, e Deir al-Balah, a Gaza, e altri campi palestinesi nella West Bank. Tuttavia, chi vi vive resta sempre straniero in terra d’altri, perché lo Stato che accoglie difficilmente interviene con una regolarizzazione legale e amministrativa, pertanto i cittadini percepiscono i nuovi arrivati come “invasori”. Soprattutto quando si tratta di numeri elevati, che magari vanno ad intensificare problemi esistenti. Come il caso della Giordania, paese che soffre di una cronica carenza idrica, anche conseguenza dell’abbassamento del livello delle acque del fiume Giordano. Nel momento peggiore della guerra siriana, il regno hashemita accoglieva un numero di profughi uguale a metà della propria popolazione, il che gravava sul già provato sistema idrico. Altro case history è il Libano, dove il sistema di potere si fonda su una ripartizione delle cariche governative su base religiosa (sunniti, sciiti, drusi, maroniti e altre 14 confessioni), le cui proporzioni derivano da un censimento degli anni Trenta, quando i cristiani erano la maggioranza. Da allora il censimento non è stato più ripetuto perché se venissero censiti tutti i musulmani profughi nel Paese (i palestinesi prima, a cui si sono aggiunti poi i siriani), la demografia cambierebbe e i precari equilibri rischierebbero di saltare.
Con 59,5 milioni di migranti forzati (ripartiti in 19,5 milioni di rifugiati, 38,2 milioni di sfollati interni e 1,8 milioni di richiedenti asilo), il 2014 è stato l’anno con il più alto incremento di persone costrette a fuggire dal proprio Paese mai registrato dall’UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati). Praticamente è come se tutti gli italiani si dessero alla fuga. Va anche rilevato che per la maggior parte questi agglomerati urbani si trovano nei Paesi in via di sviluppo, non in Europa. I siriani in primis sono andati in Libano, Giordania, Turchia, sia per una vicinanza geografica che di costumi e di religione. I sud sudanesi vanno in Egitto, i nigeriani in Camerun, perché – checché se ne dica – emigrare non è mai una decisione che si prende a cuor leggero.
Le previsioni future ci dicono di altre ondate di profughi perché i conflitti aumentano e nuove vicissitudini umane si stagliano all’orizzonte. Questo significa che se si imparerà a gestire queste aree di “extra-territorialità”, forse si potranno contenere i rischi di conflittualità sociale. Anche perché ormai si è compreso che difficilmente i profughi rientrano nelle loro case. O perché la natura dell’evento non lo permette (un terremoto, una guerra in corso, problemi di sicurezza…), oppure perché si sono rifatti una vita altrove.
Quanti sono i campi di profughi nel mondo? Difficile dirlo.Nel 2012, quelli ufficialmente censiti dalle Nazioni Unite, erano 700, ma poi ci sono quelli informali, campi improvvisati privi di servizi di assistenza, dove le condizioni di vita sono insostenibili. Dove le persone sopravvivono se qualche Ong ne scopre l’esistenza, e si attiva. Era così la situazione nel campo di Bab al Salam, al confine tra Siria e Turchia, dove arrivai nel 2013. Portammo latte in polvere per i bambini e medicinali perché la gente era priva di tutto. Si era ammassata lì, scappata da Aleppo, sperando di poter passare il confine, ma la Turchia aveva ristretto le maglie. 10mila persone lottavano per sopravvivere. Ma altri campi sono stati “casa” per numeri enormi di profughi. Esemplare, a questo proposito, il complesso di Dadaab in Kenya, con oltre 400.000 profughi somali (nel 2015). Durante la siccità del 2011 era arrivato a contenerne quasi 600.000, in condizioni disumane. Altri campi giganteschi sono quelli di Dollo Ado, in Etiopia, con oltre 100.000 somali (censimento del 2007 dell’Agenzia statistica centrale dell’Etiopia), e Kakuma, anch’esso in Kenya. nella contea di Turkana, con quasi 200.000 rifugiati, scappati da Sudan e Somalia. Perché una cosa è la capienza programmata, un’altra la situazione reale. La Ong Oxfam denuncia quanto avviene nel campo Moria, sull’isola greca di Lesbo; il Governo afferma che può contenere 3.500 persone, secondo le Nazioni Unite i posti sono 2.100; ma assiepate fuori al freddo, ci sono circa 13mila persone. Ovvio che la situazione è esplosiva.
© 2020 Romina Gobbo
pubblicato su dailyworker – giovedì 30 gennaio 2020