Uomini che rendono più della droga – Men who make more than drugs

DW(ITALIA).Sarà Idlib – oggi al centro del conflitto fra ribelli (gruppi moderati ma anche jihadisti di Tahrir al-Sham) appoggiati dalla Turchia e governo siriano -, l’epilogo di nove anni di guerra in Siria? Una carneficina dove tutte le parti in gioco hanno commesso crimini. Oppure la Siria è solo l’emblema di una guerra globale che, mentre conosce qualche momento di tregua in un’area, subito vede spuntare un altro focolaio altrove? Perché, come dice Giovanni Paolo Ramonda, presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII, «l’unica industria che dal 2008 ad oggi non ha conosciuto la parola crisi, è quella bellica». Anzi, sono state inventate armi sempre più sofisticate, più potenti, e che non implicano vicinanza tra tiratore e vittima. Un joystick e… boom. Ma anche gli uomini vengono usati come armi. In principio a farlo furono i terroristi che scorrazzano nel Sahel africano. Gli uomini rendono più della droga.

I convogli che percorrono il deserto approdano in Libia e Marocco, e lì scaricano la loro “merce” polverosa e disidratata, perché il sole africano non perdona. Ma davanti alla Libia c’è il Mediterraneo. Finalmente l’acqua? Acqua salvifica? No, non per chi viene dal centro dell’Africa, anzi, chi il mare non l’ha mai visto, lo teme. E, in effetti, quella paura non è irrazionale, visto che in sette, otto anni, il fondale si è trasformato in un cimitero. Diciannovemila migranti, senza nome e senza volto, riposano là sotto, dove tutto è silenzio.

Il traffico di esseri umani è un mercato redditizio, strutturato come un’azienda, dove lo scafista fa il prezzo a seconda della provenienza del “passeggero”. Chi arriva da paesi più ricchi, sborsa di più; così si va da 1.000 dollari fino anche a 6.000. Un mercanteggiare a senso unico perché è Caronte ad avere in mano il timone, ma che tuttavia lascia a chi vuole essere traghettato, l’illusione che un soldo in più sia garanzia di sicurezza.

Chi intraprende l’altra rotta, quella che conduce alla Spagna, arriva alle città di Ceuta o Melilla, distanti fra loro sui 200 chilometri; in entrambe è stata eretta una barriera in metallo dotata di filo spinato, con l’intento di fermare i migranti. Se qualcuno tenta di arrampicarsi, la polizia marocchina non esita a sparare. Mi ritornano alla mente immagini di altri tempi, quando a sparare era la Polizia Popolare Tedesca.

Oggi “usare gli uomini” è diventato uno sport mondiale. E il presidente turco Recep Tayyp Erdogan, in questo è un campione. E così, dopo aver accolto migliaia di profughi siriani, afghani e iracheni sul suo territorio e aver capito che quella era la sua “arma” di ricatto migliore nei confronti di un’Unione Europea colpevole di averlo rifiutato fra i suoi membri, ha deciso di liberarsene. Oggi Erdogan tiene tutti in scacco, con quel: «Vi arriveranno milioni di migranti»: una minaccia che sembra rendere più concreta quell’invasione che da decenni l’Occidente teme.

Si potrebbe dire che il leader turco ha fatto carta straccia dell’accordo firmato nel 2016 con gli Stati dell’Ue che scaricavano sul suo paese l’onere dell’accoglienza dei siriani, e non solo. Ma si potrebbe anche dire che i sei miliardi di euro con cui fu finanziato sono finiti velocemente, consumati da un flusso continuo. La Turchia accoglie tre milioni e mezzo di rifugiati, impossibile pensare che potesse continuare ad accoglierne senza reagire.

Tuttavia, la riapertura delle frontiere verso la Grecia non è solo una richiesta di altri finanziamenti, è anche simbolo di potere, e Erdogan come molti capi politici è profondamente narcisista.

Le scene di umanità dolente che in questi giorni arrivano dall’isola di Lesbo, ci rimandano ad altre masse di popoli in cammino senza meta, alla ricerca di un futuro possibile: la carovana di seimila persone che nel 2018 si diresse dall’Honduras agli Stati Uniti; gli 800mila siriani che nel 2015 cercavano di attraversare i Paesi balcanici per andare verso la Germania; o quanti dall’Italia tentavano di varcare il confine con la Francia nel 2017, nascondendosi nei cassoni dei camion o approfittando delle notti più scure. I gendarmi francesi respingevano tutti: bambini, malati e donne, anche la ragazza nigeriana incinta, che poi morì all’ospedale Sant’Anna di Torino, e che per qualche giorno fece indignare il mondo. Ma fu solo per pochi giorni, così come già era avvenuto per Aylan, il bimbo siriano di tre anni scappato dalla guerra e rifiutato dal Canada, che abbiamo imparato a conoscere attraverso il suo corpicino riverso sul bagnasciuga turco. Morto per annegamento. La sua foto pubblicata su tutti i media ci fece sussultare. Ma solo per pochi giorni.

Indipendentemente dal territorio dove si trovano, indipendentemente da quale confine cerchino di attraversare, per i profughi la realtà è sempre la stessa. Nella migliore delle ipotesi: freddo, fame, malattie, manganelli, gas lacrimogeni. Nella peggiore, la morte. Un inferno sopportato nella speranza di ottenere asilo da qualche parte. Ma non sempre dall’inferno si riemerge. A molti l’asilo non viene concesso, perché bisogna dimostrare di essere a rischio nel proprio paese. Essere rimpatriati ieri significava più che altro la sconfitta di un progetto migratorio sognato per ottenere condizioni di vita migliori, oggi è l’abisso, perché spesso significa tornare nelle mani dei carnefici. Quest’ultimo decennio ci ha visti affossare i diritti umani. L’Ungheria ha dimostrato che anche se contro i respingimenti illegittimi vengono aperte procedure di infrazione, poi di fatto non producono alcun effetto, quando non vengono insabbiate.

Quella a cui assistiamo in questi giorni in Grecia è un’altra guerra, contro la dignità, dove l’uomo è solo pedina di una scacchiera dove si gioca una partita che dagli anni Sessanta continua ad essere la stessa, nonostante i vari Erdogan, Assad…. Pedine forse più “appariscenti”, ma sempre pedine.

© 2020 Romina Gobbo
pubblicato su Daily Worker – mercoledì 11 marzo 2020

Uomini che rendono più della droga

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