L’abito non fa al monaca e neanche la murshida – The dress does not make the nun and neither does the murshida

Chiamata in causa sulla questione dell’abito con cui Silvia Romano è rientrata in Italia, cerco di fornire qualche spiegazione. Partiamo dal presupposto che nel Corano l’elemento del pudore, della #sobrietà vige per tutti i credenti, donne, e uomini. Esso dice: “Profeta, di’ alle tue mogli e alle tue figlie e alle donne dei credenti che si coprano con i loro mantelli; questo sarà meglio per distinguerle dalle altre donne affinché non vengano offese, ma Dio è indulgente e compassionevole (Corano 33,59)”. Teniamo presente che coprire il capo era segno distintivo delle donne aristocratiche, chi girava a capo scoperto invece erano le schiave o le prostitute. Questo riguardava tutta la società, comprese le cristiane. Che cosa c’entra il jilbab (jalabib al plurale)? C’entra, perché viene utilizzato nell’ultima esortazione che ho citato sopra. Quindi, è considerato un abito adatto a quella sobrietà di cui parlavo. Si tratta di un’ampia veste lunga fino ai piedi. Non si dice il colore, tant’è che ce ne sono di vari (anche se mai sgargianti, ovviamente). Se il riferimento fosse stato a Isis, a mio avviso sarebbe dovuto essere nero, come le loro bandiere, e come era la bandiera del Profeta Muhammad. La scelta del verde non mi sembra particolarmente simbolica; lo è invece il taglio, che non lascia intravvedere nessuna forma del corpo. Qualcuno ha parlato di un riferimento al verde del paradiso, in contrapposizione all’aridità del deserto. Però non ho elementi per confermarlo. Sicuramente il jilbab è in uso fra le donne somale (non è loro, ma importato assieme all’Islam), quindi farlo indossare a Silvia potrebbe essere stato anche casuale. Le carceriere immagino fossero donne. E la bagarre mediatica potrebbe aver dato ancora più risalto rispetto all’intento originario. Ovvio che se la ragazza dice: «Mi sono convertita», e indossa un abito di quel tipo, per la maggior parte della gente, che di Islam non sa nulla, la connessione è fatta. È un rafforzativo visivo di quello che sta affermando. Per quanto riguarda le donne somale, c’è da dire che – come le africane in genere – utilizzano abiti colorati, in passato il guntino, dagli anni ’70-’80 anche il dirac: abiti comunque lunghi, alle caviglie, ma sagomati, multicolor. Questi abiti possono essere anche monospalla, e anche la testa può essere scoperta. Non c’è un obbligo di coprirsi il capo, però è ovvio che in paesi così caldi il velo (o foulard, o pashmina, o comunque una qualsivoglia sciarpa) è anche una necessità (in queste zone, lo indosso sempre anch’io), così com’è per il tuareg coprirsi la bocca per non ingoiare la sabbia. Ancora una volta si tratta di mettere da parte il proprio punto di vista per provare ad immergersi in un contesto culturale altro. Per approfondimenti sull’Islam, sono anche presente sul mio canale YouTube, con dei video dedicati.

#silviaromano #islam #Muhammad #jilbab

© 2020 Romina Gobbo
Facebook e LinkedIn – 13 maggio 2020

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